La Casa d’Oro

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Nel libro dei Proverbi leggiamo : ‘La sapienza si è costruita una casa, ha intagliato le sue sette colonne.’ San Pier Damiani spiega: ‘Questa casa verginale è sostenuta da sette colonne perchè la venerabile Madre di Dio ha ricevuto i sette doni dello Spirito santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, e timor di Dio.’ E questi doni, insieme a tutte le virtù teologali con tutte le richezze della grazia e della natura la Madonna li ha ricevuti ad un grado sovreminente, così che san Tommaso asserisce che se Cristo possedeva perfettamente la pienezza di grazia, un certo inizio di essa pervenne anticipatamente nella Madre.

San Bonaventura paragona questa pienezza di grazia con un oceano in cui confluiscono i fiumi della grazia di tutti i santi: il fiume della grazia degli Angeli, il fiume della grazia dei Patriarchi e dei Profeti, il fiume della grazia degli Apostoli, dei Martiri, e dei Confessori confluiscono in Maria. Tutti i fiumi confluiscono nel mare che è Lei, e questo mare li contiene tutti.

Il divin Architetto, creando la Madonna, costruì il Suo santuario divino, oggetto delle Sue infinite compiacenze. Nelle parole di monsignor Gaume Ella fu la Sua colomba, l’unica, tutta bella, senza macchia nè ombra di macchia, bianca come il giglio, graziosa come la rosa, brillante come lo zaffiro, trasparente come il diamante, radiante di una luce così intensa e così pura, che, nelle parole di san Teodoro Studita, Dio Stesso si è unito sostanzialmente a Lei per opera dello Spirito Santo, e da Lei è nato come Uomo perfetto; un Essere infine così sublime nella santità che, secondo san Bernardo, a Dio non era propria altra Madre che Maria e a Maria non era proprio altro figlio che Dio.

E come i raggi del sole colorano, traversandola, una nuvola diafana, le bellezze interiori della Figlia del Re irradiavano dal Suo corpo virginale e la rendevano imparagonabilmente più bella , come spiega sant’Alberto Magno, di tutte le Sue figure nell’Antico Testamento: più bella di Eva, più bella di Rachele, più bella di Rebecca, la giovane vergine modesta scelta da Abramo per l’amato figlio Isacco; più bella di Ester, e più bella di Giuditta a cui Dio aveva aumentato la bellezza per renderla incomparabilmente bella agli occhi di tutti gli uomini.

Così era dunque il Santuario Divino, l’Arca della nuova alleanza, la Casa d’oro, l’opera più grande dello Spirito Santo dopo la sacratissima Umanità di nostro Signore Gesù Cristo; un’opera che viene paragonata ad una stella raggiante di santità e di gloria, lungi da questo mondo oscuro e caduto: la Stella del mare che mostra ai viaggiatori sull’oceano perfido ed amaro di questa vita, la via al porto celeste che è il suo Figlio; la Stella Mattutina che preannunzia quel giorno glorioso che non conosce tramonto, quel Sabato eterno quando ci riposeremo dai nostri lavori in Dio; la Stella che irradia sul mondo raggi di luce increata e che partorisce il Sole che preannunzia.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il Buon Pastore

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il Buon Pastore va alla ricerca della pecorella smarrita: ovvero, di noi quando abbiamo peccato; ci mette in spalla e ci porta a casa, ossia in Paradiso. In un altro brano chiama le Sue pecore, che Lo seguono perchè Lo conoscono (Lo conoscono nella fede), e perchè conoscono la Sua voce (la conoscono nell’insegnamento della Chiesa). E le pecore Lo seguono all’ovile, all’unico ovile che è l’una, santa, cattolica ed apostolica Chiesa: l’unico mezzo di salvezza; Lo seguono all’unico ovile che allo stesso tempo è immagine del Paradiso.

‘Io sono il Buon Pastore’, dice il Signore, ‘il buon Pastore offre la vita per le pecore.’ In questo tempo pasquale meditiamo sull’amore misericordioso del Signore Che ha offerto la vita per noi sul duro legno della croce, affinchè noi possiamo essere portati da Lui in spalla alla Sua casa e possiamo entrare in quella casa: nella santa Chiesa e nel Paradiso.

La frase ‘offre la vita per le pecore’ esprime soprattutto l’amore di nostro Signore Gesù Cristo verso di  noi, perchè questo è il più grande amore: quello di dare la vita per gli amici. Il fatto che il Signore dica ‘conosco le Mie pecore e le Mie pecore conoscono Me’ rappresenta la reciprocità di questo amore; il fatto che Egli lo paragoni con l’amore tra Lui ed il Padre quando dice ‘come il Padre conosce Me ed Io conosco il Padre’,  significa che questo amore divino è origine, fonte e causa dell’amore tra  Lui ed i Suoi fedeli, ed esprime anche la sua immensità.

Che la figura del Buon Pastore raffiguri in primo luogo l’amore, si manifesta altrettanto alla fine del vangelo di san Giovanni quando il Signore, chiedendo tre volte a san Pietro: ‘Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?’ gli dice: ‘Pasci le Mie pecorelle’: san Pietro deve divenire anche lui buon pastore nel seguire Cristo ed in partecipazione con Lui; e per questo compito occorre l’amore.

Già nell’Antico Testamento troviamo la figura del Buon Pastore amorevole, anche se in maniera meno concreta e più misteriosa. ‘Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare.’ In questo Salmo 22 Iddio si rivela come un buon pastore che ci conduce in Paradiso alla nostra eterna felicità e pace. Ci conduce attraverso la valle oscura della morte che è questa vita: la valle oscura dell’ignoranza, del peccato, della sofferenza, e della morte; la valle oscura sulla quale la luce increata del Cielo non cade, ma dove non dobbiamo temere alcun male perchè Egli è con noi, parlandoci con la voce dei Suoi comandamenti e operando per noi con i Suoi Sacramenti: il Sacramento del Battesimo  rappresentato dalle acque tranquille a cui ci conduce; il Sacramento della Penitenza che converte la nostra anima; i Sacramenti della Cresima, dell’Ordine, e dell’Estrema unzione che sono l’olio col quale ci cosparge il capo; i Sacramenti del Matrimonio e della santa Eucarestia che sono la mensa che ha preparata per noi; il Sacramento dell’Eucarestia in particolare, che è il nostro calice traboccante.

Lui è con noi con la voce e con le azioni, ma anche con la Stessa Presenza, tramite cui è presente dappertutto e soprattutto nelle anime dei giusti per la grazia, così che con un solo pensiero ci troviamo di nuovo nella Sua dolce compagnia.

Se viviamo con Lui, dunque, la felicità e la grazia ci saranno compagne tutti i giorni della vita, fin quando non perveniamo a quella mensa celeste ed a quel calice che sono anche immagini della vita eterna nella casa del Paradiso.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

 

L’uscire dal Padre ed il tornare a Lui

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

‘Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre’. Il Signore parla con queste parole del Suo uscire dal Padre al momento dell’Incarnazione e del Suo ritorno a Lui all’Ascensione. Parla del Suo rapporto col Padre nella Sua umanità, immagine del Suo rapporto col Padre nella Sua Divinità all’interno della Santissima Trinità: dove c’è un procedere dal Padre al Figlio, ed un procedere dal Figlio al Padre.

Come il Signore esce dal Padre e torna a Lui nella Sua umanità, anche noi usciamo dal Padre e torniamo a Lui. Usciamo dal Padre e veniamo nel mondo al nostro concepimento; torniamo al Padre e lasciamo il mondo alla morte.

Come il Signore è Figlio del Padre, anche noi siamo figli del Padre: Lui è Figlio di Dio secondo la natura, la natura Divina, la Divinità; noi invece lo siamo secondo l’adozione, secondo l’incorporazione in Cristo tramite il battesimo.

All’interno della Santissima Trinità Nostro Signore Gesù Cristo si unisce al Padre nell’amore, nel procedere dello Spirito Santo; nella Sua vita terrena va al Padre per mezzo dell’amore: per mezzo della vita intera vissuta per amore del Padre.

Anche noi andiamo al Padre, torniamo al Padre, per mezzo dell’amore. Non basta il battesimo: non basta l’incorporazione a Lui, Corpo Mistico, ovvero alla Chiesa; bisogna amarLo, amarLo con l’amore della Carità: con l’amore sovrannaturale, ossia in stato di grazia. Chi non è in stato di grazia non può amare Dio – nel modo che Lui richiede.

Come amiamo Dio? osservando i comandamenti, praticando le virtù la cui forma è la Carità: agendo per Lui e soffrendo per Lui, perchè anche la sofferenza può essere un modo di amare Dio. Ognuno ha la propria croce: c’è chi soffre fisicamente in ospedale; c’è chi soffre psichicamente a casa: ansie, paure, tristezze. Questo bambino viene maltrattato a scuola, quello a casa; questa persona soffre perchè i familiari sono lontano da Dio; quella per i debiti, quell’altra di solitudine.

Ognuno ha la sua croce. Non deve lamentarsi, nè rammaricarsi, ma portarla con pazienza per amore di Dio. Poichè di questo può essere sicuro: che la sua croce è precisamente quella che Dio ha scelto per lui, per guarirlo dei suoi peccati, per santificarlo e per salvarlo. Dio ci conosce e sa di cosa abbiamo bisogno per il nostro eterno bene.

Solo tramite l’amore che suscitiamo nelle azioni e sofferenze ci possiamo avvicinare a Lui: solo così possiamo tornare a Lui come il figliuol prodigo torna al Padre eterno dopo tutta una vita di peccato; solo così ci possiamo staccare dal mondo con tutte le sue attrazioni, pompe e false promesse.

Bisogna essere figli di Dio non solo di adozione, ma anche moralmente, dunque; bisogna trasformarsi in Lui mediante la Carità, così che Cristo viva in noi e che il Padre Lo ami in noi, e dica: ‘Questo è il Mio Figlio prediletto in cui Mi sono compiaciuto’; così che nell’ora della morte, per l’intercessione della Santissima Madre di Dio, il Padre riprenda l’anima che ci ha dato all’inizio della vita, per introdurla nell’amore eterno tra Sè ed il Suo Figlio, nell’unità dello Spirito Santo.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

il frutto della santa Messa

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen

Tre sono le categorie di persone che approfittano del santo sacrificio della Messa: inanzitutto la santa Chiesa cattolica. Prima dunque la Chiesa trionfante, ovvero gli angeli ed i santi del Paradiso, come prega il celebrante nell’offertorio: ‘anzitutto la gloriosa sempre vergine Maria, Madre del medesimo nostro Dio e Signore Gesù Cristo… e Vostri Apostoli e martiri… e tutti i Vostri santi…’; poi la Chiesa militante, ovvero noi battezzati sulla terra: ‘degnateVi in ogni parte del mondo di donarle pace, di proteggerla, di adunarla nell’unità e di governarla assieme al Vostro servo e nostro Papa…; in fine la Chiesa purgante, ovvero ‘i Vostri servi e serve che ci hanno preceduti con il segno della fede e che dormono il sonno della pace… ad essi concedete, Ve ne preghiamo un luogo di refrigerio, di luce e di pace.’

Bisogna però aggiungere che la santa Messa, essendo un sole spirituale così ricco e sovrabbondante di bontà, versa i raggi anche su di coloro che sono solo potenzialmente membri della Chiesa per beneficarli, soprattutto attirandoli all’unica arca di salvezza che è essa stessa.

La seconda categoria di persone che approfittano della santa Messa è quella prevista nell’intenzione del celebrante, la quale al solito viene da lui in modo specifico nominata nel memento dei vivi e dei defunti – la salvezza di un peccatore particolare ad esempio; o la consolazione, oppure la liberazione dal Purgatorio di una determinata anima.

La terza categoria è lo stesso celebrante con i fedeli che assistono, a cui si riferiscono le parole: ‘tutti i circostanti’, e ‘nobis quoque peccatoribus.’ Su tutte queste persone saranno elargite in abbondanza le grazie di Dio guadagnate dal santo sacrificio del monte Calvario.

Ora, le grazie ed i beni elargiti sui vivi sono in primo luogo di ordine sovrannaturale, tendendo alla santificazione ed alla salvezza delle anime; in secondo luogo sono di ordine naturale e temporale, purchè siano compatibili con quelli sovrannaturali. Difatti non c’è dono nè grazia così grande che non si possa chiedere mediante la santa Messa, essendo ciò che chiediamo creato e finito, e ciò che offriamo divino. Dice padre Martin von Cochem: ‘È impossibile che Iddio, Che vuole riccamente ricompensare anche un bicchiere di acqua fredda, non ci lascierà senza compenso, se Gli offriamo con riverenza il calice del Sangue di Suo Figlio Divino.’

Avendo parlato del frutto del santo sacrificio della Messa, vogliamo guardare adesso il frutto del Sacramento in particolare, ovvero della santa Comunione. Facciamo notare intanto che solo i fedeli nello stato di grazia possono riceverla, e riceverla con frutto.

Un primo frutto della santa Comunione è che ci unisce a Cristo, e che dunque ci aumenta la Grazia divina, le grazie infuse ed i doni dello Spirito Santo, come dichiara il sacro concilio di Firenze (1439): ‘…nutrendo, sostenendo, aumentando, riparando e dilettandoci in modo spirituale.’ Il sacro concilio di Trento descrive la santa Comunione inoltre come ‘cibo delle anime con cui siamo nutriti e confortati, vivendo della vita di Colui Che disse: ‘Chi mangia di Me, vivrà per Me.’’

Un secondo frutto del Sacramento è che ci fa ottenere la gloria eterna. Il concilio di Trento dichiara: ‘Egli voleva che fosse un pegno della nostra futura gloria e perpetua felicità’. Possiamo citare nuovamente san Giovanni capitolo VI a riguardo: ‘Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno’. Il motivo per cui la santa Comunione ci fa ottenere la gloria eterna è che contiene nostro Signore Gesù Cristo Che ci dona la gloria: la santa Comunione è un cibo che conforta l’anima affinchè possa perseverare fin quando ottenga questa gloria. Uno dei modi nei quali conforta l’anima è che la rende forte contro le tentazioni. San Giovanni Crisostomo scrive che la Comunione, essendo un segno della Passione, respinge gli attacchi dei diavoli che sono stati vinti dalla Passione.

Un terzo frutto della santa Comunione è che rimette vari peccati veniali e la pena per essi dovuta, come dichiara papa Benedetto XII con il suo libello agli Armeni, ed il sacro concilio di Trento. La santa Comunione ha questi effetti in quanto aumenta in noi la Carità.

La pienezza del frutto che verrà ricevuto dalla santa Messa e dalla santa Comunione dipende dalle disposizioni del soggetto che lo riceve: del celebrante, dei fedeli che assistono e comunicano, delle persone per le quali il frutto viene richiesto; dipende cioè dal grado della devozione e dall’apertura alla grazia divina: più grande la devozione, più grande sarà il beneficio.

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Concludiamo queste considerazioni con una citazione dall’Imitazione di Cristo, libro quarto, inizio del capitolo 17, che esprime con parole toccanti la santa devozione di un fedele accostandosi alla santa Comunione.

“Con devozione grandissima e con ardente amore, con tutto lo slancio di un cuore appassionato, io desidero riceverVi, o Signore, come Vi desiderarono nella Comunione molti santi e molti devoti, a Voi massimamente graditi per la santità della loro vita e per la loro infiammata pietà.

O mio Dio , amore eterno, che Siete tutto il mio bene, la mia felicità senza fine, io bramo riceverVi con intenso desiderio e con venerazione grandissima, quale mai potè avere o sentire santo alcuno. Anche se non son degno di sentire tutta quella devozione, tuttavia Vi offro tutto lo slancio del mio cuore, come se io solo avessi tutti quegli accesi desideri, che tanto Vi sono graditi. Chè anzi, tutto quel che un animo devoto può capire e desiderare: tutto questo io lo porgo e lo offro a Voi, con estrema venerazione, in pio raccoglimento. Nulla voglio tenere per me , ma voglio immolarVi me stesso e tutto quello che ho con scelta libera ed altamente gioiosa.”

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen

Il corona virus e la santa comunione nella mano

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

L’onore è l’atteggiamento dovuto ad un altro in virtù della sua dignità, cioè della sua eccellenza. L’adorazione, in particolare, è quell’onore che è dovuto a Dio, ossia in virtù della Sua eccellenza, o dignità, infinita. L’adorazione comprende un atteggiamento da parte nostra sia dell’anima che del corpo.

Quello dell’anima viene definita da Bossuet come: ‘il riconoscimento in Dio dell’altissima Sua sovranità e in noi della più profonda dipendenza.’ Quello del corpo, invece, quando stiamo davanti a Dio, ossia davanti a nostro Signore Gesù Cristo in chiesa, è stabilito dalla santa madre Chiesa in termini di silenzio, di genuflessioni, dell’inginocchiarsi, e degli inchini profondi. Per ricevere la santa Comunione, più precisamente, occorre l’inginocchiarsi alla balaustra ed il comunicarsi sulla lingua.

La seconda pratica, introdotta nei primi secoli e stabilita per la Chiesa Universale più di mille anni fa, fu abolita dai sedicenti riformatori nel cinquecento. Come abbiamo citato nel nostro libro: ‘Come è cambiato il rito romano’, il domenicano apostata Martin Bucer constata nella sua ‘Censura’: ‘Diviene il nostro dovere abolire dalle chiese… con tutta la purezza di dottrina, qualsiasi forma di adorazione del pane che vogliono che gli anticristi utilizzino e conservino nei cuori della gente più semplice.’ Per tali motivi anche i riformatori Zwingli e Clavino hanno imposto la comunione in piedi e sulla mano. La comunione in mano è divenuta in seguito una pietra miliare della negazione del dogma cattolico sulla Presenza Reale da parte dei protestanti.

Negli anni ‘60 la stessa pratica fu introdotta nella Chiesa cattolica dai sacerdoti dell’ Europa centrale come sfida a Roma, e poi diffusa sempre di piu’ tra i fedeli.

Prendere nelle mani non-consacrate il Sacrosanto Corpo del Signore, e tipicamente anche in piedi, spolverarNe i frammenti per terra, inghiottirLo camminando – si può descriverlo come ‘adorazione’? – fu escogitato proprio per rendere l’adorazione del tutto impossibile. Il clero ed i fedeli devono categoricamente rifiutare di partecipare a questo abuso.

In occasione del ‘coronavirus’, si incoraggiano forse i pochi cattolici praticanti che rimangono in Italia di pregare di più? Si invitano i non-praticanti a tornare ai sacramenti? Si organizzano notti di preghiera, processioni, pellegrinaggi? – come ha sempre fatto la Chiesa – nel quattrocento a Venezia ad esempio, nel cinquecento a Milano, nel settecento a Marsiglia. No, gli uomini di Chiesa chiudono le chiese; o le tengono aperte senza provvedere ai sacramenti dell’Eucarestia o della penitenza; oppure, se offrono il santo sacrificio della Messa in pubblico, insistono sulla Comunione in mano e proibiscono quella sulla lingua.

Una donna devota di famiglia albanese a noi conosciuta, di cui i parenti furono perseguitati ed uno zio vescovo martirizzato, fu trascinata qualche giorno fa in una chiesa vicino, con sua grande sofferenza e per la prima volta nella vita, di ricevere il Sommo Bene in mano; un bambino che aveva ricevuto la prima santa Comunione il sabato scorso fu indotto dalla madre questa domenica a riceverLa sulla mano, ciò l’ha fatto scoppiare in pianti.

Celebrando ed avendo sempre celebrato unicamente il rito romano antico, e potendo, per quello, dare la santa Comunione solo sulla lingua, l’autore di questo articolo, essendo in questi tempi in una diocesi afflitta dal virus, dove la Comunione sulla lingua viene vietata, si trovava in una certa difficoltà. Non essendo membro di un gruppo non sottomesso (o non pienamente e chiaramente sottomesso), al papa ed ai vescovi, si sentì obbligato ad ubbidire all’Ordinario del luogo, e sebbene à contre coeur, di non distribuire la santa Comunione ai fedeli affatto.

Ne abbiamo informato i fedeli prima della celebrazione della santa Messa domenicale, incoraggiandoli di fare la Comunione spirituale, e dicendo che sicuramente il Signore non gli avrebbe privato delle grazie sacramentali che altrimenti gli avrebbe date. Abbiamo esposto il Santissimo per una mezz’ora dopo la santa Messa, per avvicinarli di più a Sua Divina Maestà, almeno in modo spirituale.

Quanto grande non fu la nostra consolazione e gioia spirituale in seguito, dunque, di leggere durante la santa Messa le parole seguenti della Communio e della Postcommunio: ‘Manducaverunt et saturati sunt nimis, et desiderium eorum attulit eis Dominus: non sunt fraudati a desiderio suo… Quaesumus, omnipotens Deus: ut, qui celestia alimenta percepimus, per haec contra omnia adversa muniamur.’ Mangiarono e furono saziati grandemente, ed il Signore gli apportò il loro desiderio: non furono privati del loro desiderio… Chiediamo, onnipotente Dio, che noi che abbiamo ricevuto nutrimenti celesti, per mezzo di questi saremo difesi contro ogni avversità.

Non solo questa grazia, ma anche un’altra ci fu concessa susseguentemente, per ‘difenderci di ogni avversità’. Dopo aver celebrato nello stesso modo per i giorni successivi, abbiamo ricevuto poi dalla curia il privilegio insigne di poter distribuire di nuovo la santa Comunione sulla lingua.

Il demonio sta approfittando del corona virus per attaccare la Chiesa, indebolendo ed impoverendo ulteriormente in modo spirituale larghe zone delle terre che sono il cuore del cattolicesimo. Il virus, come ogni malattia o male fisico, è conseguenza del male spirituale, cioè il peccato. Il rimedio definitivo di un male spirituale si troverà solo in un bene spirituale, ossia la conversione del cuore: preghiere, ritorno ai sacramenti, ed, in una parola, l’Adorazione di Dio.

Sit nomen Domini Benedictum. Ex hoc nunc et usque in saecula. Amen.

La divina maternità spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

‘Beato il seno che Ti ha portato e le mammelle che hai succhiato’, grida una voce dalla folla, potremmo supporre, mossa dallo Spirito Santo nella sua somiglianza al grido di sant’Elisabetta: ‘Benedetta tu tra le donne’. E nostro Signore risponde: ‘Beato piuttosto chi sente la Mia parola e chi la custodisce.’ Il passo assomiglia a quell’altro in cui nostro Signore, informato che Sua Madre ed i Suoi fratelli Lo stanno aspettando, dice: ‘Chi è Mia madre, chi sono i Miei fratelli? Coloro che fanno la volontà di Mio Padre, questi sono Miei fratelli, Mie sorelle, e Mia madre’.

Ma pare a prima vista che questi siano modi dispregiativi di parlare di Colei che viene chiamata da san Cirillo ‘la perla di questo mondo, una luce sempre brillante, la corona delle vergini, il scettro della fede’, e da sant’Efrem ‘la speranza dei padri, la gloria dei profeti, la lode degli apostoli, l’onore dei martiri, il gaudio dei santi, e la luce dei patriarchi’.

Quando riflettiamo più profondamente, però, vediamo che nostro Signore Benedetto non sta disprezzando Sua beatissima Madre con tali parole, ma piuttosto La sta lodando.

Beato il seno, ma ‘ancor più beato chi sente e custodisce la parola’ di Dio. Ma chi la sente e la custodisce maggiormente che non Sua Madre celeste? Poichè sente la parola dell’angelo che è la parola di Dio, in quanto è l’ambasciata di Dio nel senso ultimo del termine: l’annuncio di Dio della redenzione del mondo.

Lei sente questa parola dunque, e la custodisce e conserva poi come Verbo divino nel proprio seno, in una maniera di cui non ce n’è di più intima, dandoGli la stessa carne. Così che il Verbo divino, ovvero Dio Stesso che è il cielo, potesse abitare un altro cielo: il cielo terrestre del seno di Sua beatissima Madre.

Lei custodisce il Verbo Incarnato nel seno per nove mesi e poi per tutto il tempo della Sua vita nascosta a Nazareth, mentre ascolta la Sua voce, la voce del Beneamato. E dopo, Lo custodisce ancora nel tempo della Passione, stando accanto alla croce con tutta la propria autorità di Madre di Dio, di Regina dei martiri, Regina degli angeli, Regina del cielo e della terra.

Lei non solo Lo porta nel seno e Gli dà da succhiare, dunque, ma anche Lo ascolta e Lo custodisce in modo perfetto, fino alla fine. Facendo così, compie inoltre la volontà di Dio. In tutti questi modi diviene Madre di Dio nel senso spirituale inteso dal Signore, ossia in modo perfetto.

Che la divina Maternità spirituale della Madonna fu in un certo senso più grande di quella fisica, viene espresso dai padri della Chiesa, ad esempio da san Bernardo, quando dice che Lei concepì Dio nella mente prima di concepirLo nel seno, e che Dio amava talmente la sua bellezza spirituale che si unì a Lei prima nello spirito e poi nella carne.

Difatti la maternità spirituale e fisica sono così intimamente congiunte che non si possono quasi distinguere: la sua straordinaria elevatura spirituale era condizione per la sua maternità divina, e la sua maternità divina era allo stesso tempo condizione per la sua elevatura spirituale.

La divina maternità è il più alto e grande privilegio della Madonna, di cui non ce n’è mai stato uno più grande elargito sul creato. Che noi, meditando su di essa, raggiungiamo a una devozione sempre più profonda verso Colei che era ed è la creatura razionale più gloriosa e più perfetta di tutte. Amen.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

L’Annuciazione

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il glorioso San Bernardo osserva che il santo Nome di Maria significa stella maris ciò che si adatta bene a Lei in quanto ‘come la stella emette il suo raggio senza corrompersi, così senza infrangere la sua integrità la Vergine partorì il Figlio. Il raggio non diminuisce lo splendore della stella e il Figlio non toglie l’integrità alla Madre.’ In un altro brano lo stesso santo paragona la sua Verginità a una stella e la sua Maternità a un’altra: due stelle che si illuminano a vicenda con i propri raggi.

Ora il fatto che il Figlio della santissima Vergine è una Persona Divina, fa che la Madonna è Madre di Dio, così che san Bernardo si immagina al momento dell’annunziazione il mondo intiero aspettare il suo fiat per l’avvento del Salvatore:

Tutta l’umanità prostrata ai vostri piedi l’attende’, scrive, ‘Rispondete presto, o Vergine; pronunziate, o Signora, la parola che terra ed inferi e persino il cielo aspettano. Anche il Re e Signore di tutti, quanto si è invaghito della vostra grazia, altrettanto desidera la vostra affermativa risposta: poichè per essa ha deciso di salvare il mondo.

Date la vostra parola, e accogliete la Parola, dite la vostra parola umana, e concepite la parola di Dio; pronunziate la vostra parola che passa, e stringete al vostro seno la parola che è eterna.’ E la Vergine risponde: ‘Il Verbo che in principio era presso Dio si faccia carne della mia carne, seconda la Vostra parola… il Verbo che io possa non solo udire con l’orecchio, ma vedere con gli occhi, toccare con le mani, portare sulle spalle: non la parola scritta e muta, ma la Parola incarnata e viva, stampata non in mute figure e tracciata su una pergamena senz’anima, ma impressa vivente e in forma umana nelle mie caste viscere, e ciò non per pittura di penna inerte, ma per opera dello Spirito Santo.’

Che queste brevi meditazioni servano ad accendere nei nostri cuori l’amore per il Cielo, il desiderio di passare la vita guadagnando meriti per l’eternità, ed il desiderio infine di vedere lassù dopo questo nostro esilio la Santissima Madonna, Vergine e Madre, ed il frutto Sacratissimo del suo seno Gesù.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La compunzione

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

‘Il pubblicano, invece, fermatosi a distanza, non osava neanche alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio abbi pietà di me, peccatore.” ’ Questa è l’espressione classica della contrizione, che ha un gran potere presso Dio. Sant’ Antonio da Padova commenta: ‘Il pubblicano… non osa avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui; non osa guardare, per essere da Dio guardato; si percuote il petto, si punisce da sé, perché Dio lo risparmi; confessa il suo peccato perché Dio lo perdoni. E Dio lo perdona perché lui riconosce il suo peccato.’

La Chiesa insegna che la contrizione ha gradi diversi, e nel suo grado più alto, quello della contrizione perfetta, basta per il perdono dei peccati, anche fuori dal sacramento della Penitenza. Ma non possiamo mai presumere di aver raggiunto quel grado di contrizione, non potendolo verificare. Per questo san Pio X insegna nel catechismo che, se siamo nello stato di peccato mortale, bisogna sempre confessarci sacramentalmente prima di ricevere la santa Comunione.

La preghiera russa ‘Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbia pietà di me, peccatore’ deriva dalla preghiera del pubblicano, e viene tipicamente recitata in modo costante, in risposta alla parola del Signore di pregare sempre. Ciò insegna che la contrizione possa avvenire come atto (ad esempio la frase che si recita dopo l’autoaccusa delle colpe in confessione come ‘atto di contrizione’), oppure come uno stato costante dell’anima.

Questo stato di contrizione viene espresso nel salmo 50: ‘… iniquitatem meam ego cognosco: et peccatum meum contra me est semper. Tibi solo peccavi, et malum coram te feci… Conosco la mia iniquità: e il mio peccato è sempre contro di me. A te solo ho peccato, e ho fatto male davanti a te.’

La contrizione, come stato costante dell’anima, si chiama ‘compunzione’. Consiste in un atteggiamento di odio e di rifiuto dei propri peccati passati e della propria malvagità, nonché di umiliazione davanti alla Maestà infinita di Dio. Comporta con sé la sfiducia completa in noi, e la fiducia completa in Dio, in Dio solo, nella Sua infinita misericordia.

Se l’atto di contrizione è potente per cancellare i nostri peccati, lo è ugualmente la compunzione: ‘Un cuor umiliato e contrito, o Signore, non disprezzerai’. Facciamo notare che il latino cor humiliatum et contritum si traduce giustamente come ‘un cuore umiliato’ e non (come talvolta si trova) un ‘cuore umile’; e che contritum nel latino ha un senso più estremo della parola italiana ‘contrito’, il cui significato letterale è esser affranti dal dolore, ridotti alla polvere.

La compunzione è capace non solo di cancellare i peccati, ma anche di santificarci. Padre Faber scrive: ‘Se c’è qualcosa che possa durare tanto a lungo quanto la nostra vita è il sentimento di compunzione. Ha avuto un ruolo attivo nel nostro ritorno a Dio, e non c’è una vetta di santità così alta che essa non scali con noi.’ Si legge ad esempio nella biografia di san Luigi Gonzaga che il suo atteggiamento costante di compunzione per parole peccaminose che abbia pronunciate nella fanciullezza (pur essendo inconsapevole del loro senso) contribuisse non poco alla sua santificazione.

Si dice che il demonio negli ultimi momenti della vita tenta spesso in modo più forte di far perdere l’anima all’uomo: Questo lo fa, soprattutto mostrandogli i suoi più gravi peccati per sedurlo alla disperazione e alla sfiducia in Dio. Abbiamo già accennato al pericolo di lasciarci inondare da quei flutti di dolore. Il modo migliore di uscirne è di fare subito atti fervorosi di fiducia in Dio.

La necessità della compunzione si vede quando si riflette sullo scopo della vita. Lo scopo della vita non è semplicemente di raggiungere il cielo senza morire nel peccato mortale, bensì di raggiungere quel grado di gloria in cielo che Dio provvede per noi dall’eternità: lo scopo non è semplicemente vivere senza staccarci completamente da Dio, bensì perfezionarci, santificarci ed unirci quanto intimamente possibile a Dio ed alla Sua Gloria.

Dunque, per il motivo di santificarci, ciò che ci occorre non è solo fare atti puntuali di contrizione per liberarci (con la grazia divina) dal peccato, bensì lo stato costante di contrizione: occorre la compunzione. Siamo tutti peccatori. Come dice san Giovanni Evangelista: ‘Se diciamo che non abbiamo peccato, siamo bugiardi’. Dunque utilizziamo il ricordo amaro dei nostri peccati per santificarci.

La compunzione cancella i peccati e ci santifica: la compunzione ha una forza straordinaria presso Dio. San Girolamo scrive: ‘Umile lagrima del cuore: tu sei una regina, tu sei onnipotente; tu non temi il tribunale del Giudice, tu imponi silenzio ai tuoi accusatori; nulla ti arresta; tu hai accesso al trono della grazia, e non te ne allontani mai con le mani vuote; e la pena che tu causi al demonio è per lui più terribile della stessa pena dell’Inferno. Tu trionfi sull’Invincibile, tu leghi ed obblighi l’Onnipotente. La sola preghiera Lo intenerisce, ma l’anima che piange pregando, Gli è irresistibile: la preghiera è un olio che Lo dispone ad esaudire, le lagrime sono uno strale che gli ferisce il cuore, e Lo forza ad agire.’

E’ vero che non tutti abbiamo la grazia di piangere il nostro peccato con le lacrime degli occhi, come nei primi tempi della Chiesa e nella tradizione della Chiesa orientale. Il padre certosino Augustino Guillerand commenta che le lacrime di cui si tratta qui sono ‘le lagrime autentiche del cuore’, le quali possono essere facilmente soffocate dallo sforzo di produrre ciò che è solo il loro segno esterno… sono un movimento interamente interno e spirituale che viene suscitato solamente dallo spirito d’amore: lo deve chiedere con piena fiducia e poi tranquillamente aspettare.

E’ una fiamma chiara e pura che salta in alto come da un bracere nascosto; illumina la mente e tocca le corde del cuore; smuove l’anima fino nelle sue profondità, facendola vibrare quasi da un fremito celeste, che la solleva sopra di sè, così da far esclamare: ‘Mio Dio!’ in un modo tutto nuovo. Poi la distanza che la separa da Colui Che si fa conoscere a questo modo, il ricordo dei peccati che hanno causato quell’abisso, Gesù in croce Che espiava i nostri peccati, la Madonna ai Suoi piedi, l’Inferno che punisce il peccato senza toglierne il debito: tutti questi pensieri ci sgorgano nella mente, cessando di essere pensieri e divenendo immagini. Tutto ciò preme l’anima come un frutto maturo e fa scorrere lagrime suavi ed inebrianti dagli occhi.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La contrizione

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. 

Dopo una conversione, una questione importate da risolvere è come guardare i peccati passati. San Giovanni Cassiano asserisce che è molto salutare riflettere su di essi. Ed è vero che questo esercizio ci porta presto all’umiltà. Quando siamo tentati di parlare, oppure pensare, male degli altri, un rimedio sicuro e sempre pronto è proprio quello di rivoltare lo sguardo verso noi stessi: voglio gettare una pietra, ma chi sono io per farlo? Non avrei peccato pure io? Sono forse meglio di lui o di lei? Se non ho peccato nello stesso suo modo, avrei peccato in altri modi, e pure modi più colpevoli: lui ha peccato per debolezza, forse; io invece per malizia – ad esempio pensando male di lui, come ora; oppure io ho ricevuto molte grazie a cui non son stato fedele; lui meno grazie, ma ne è stato fedele; se lui avesse ricevuto le grazie che ho ricevuto io, sarebbe forse già santo.

Quando siamo tentati al peccato, oppure quando ci sentiamo gonfiare dall’orgoglio, pensando anche che siamo meglio degli altri, o che gli altri o anche Dio Stesso si devono sottomettere a noi, pensiamo ai nostri peccati passati e così diveniamo presto sobri ed umili.

Un pericolo

Ma qua c’è un pericolo per coloro che meditano intensamente sui peccati e che sono inoltre portati agli scrupoli o alla superbia.

Gli scrupolosi, meditando sui peccati passati, possono cadere nell’ansia, nella tristezza smisurata, nello scoraggiamento, e persino nella disperazione, pensando al male commesso, alla rigorosa severità del giudizio, ed alle pene del Purgatorio o persino dell’Inferno. Circumdederunt me dolores mortis, mi circondarono i dolori della morte: mi sento consegnato spiritualmente alla stessa morte; mi afferra la paura della morte fisica quando sarò giudicato per ogni male compiuto su questa terra; mi afferra la paura della morte eterna che potrei aver meritato.

I superbi corrono lo stesso rischio: perché riconoscere la propria peccaminosità li priva della consolazione di quel mondo della fantasia in cui così beatamente vivevano finora, dove erano loro gli dei: ormai quel mondo è tutto crollato e non vedono se stessi più che come un nonnulla, degni solo della condanna.

Il demonio si insinua volentieri in questo subbuglio dell’anima per farci maggiormente soffrire, aumentando o accentuando i tormenti con cui ci affliggiamo, suscitando immagini vergognose nella memoria: ‘Hai fatto questo, hai fatto quello, ti ricordi? Vedi come ti sei comportato verso Dio; verso te stesso; verso i genitori, il prossimo, il marito, la moglie, i figli!’

Oggigiorno non pochi fedeli reagiscono dicendo: ‘Bisogna perdonare se stessi’. Il beato Cardinal Newman constata invece: ‘Non dobbiamo mai perdonare noi stessi.’ Infatti bisogna essere realisti e riconoscere che, peccando, abbiamo agito liberamente contro Dio, il Sommo Bene, e che Lui solo ci può perdonare. Riconoscere questo infatti ci rende umili e più graditi a Lui. Se la sofferenza al pensiero dei peccati passati ci troppo opprime, bisogna staccarcene e affidarci interamente all’infinita Misericordia di Dio.

San Giovanni della Croce ci ammonisce di trattenerci sul pensiero del passato solo fin quanto ci serva all’umiltà, ma non di più. Se ci porta all’autolesionismo e ci allontana da Dio, come il nostro nemico desidera, bisogna resistere e non riflettere più sul passato. ‘Il vostro avversario, il diavolo gira cercando chi possa divorare: a cui bisogna resistere forti nella fede. E Voi, o Signore, abbiate misericordia di noi. Grazie a Dio… cui resistite fortes in fide. Tu autem Domine miserere nobis. Deo gratias.’

La moltiplicazione dei pani

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La moltiplicazione dei pani nelle mani del Signore e dei Suoi discepoli e la Sua distribuzione al popolo è simbolo ed anticipazione di un miracolo ineffabilmente più grande che è la santa Eucarestia: il pane che diviene nelle mani del Signore e dei Suoi ministri, attraverso i secoli, Gesù Cristo Stesso, il Cristo totale: Christus totus.

La Santa Madre Chiesa col miracolo dei pani ci mette dunque davanti agli occhi il miracolo della santa Eucarestia che è senza eccezione alcuna la cosa più grande e più preziosa del mondo intero, essendo Gesù Cristo Stesso, Che vive in mezzo a noi nella Presenza Reale. In questo mistero, secondo la parola di uno scrittore, Dio ha attraversato per così dire un’infinità di tempo e di spazio per dimorare in questo povero mondo: per avvicinarSi ed unirSi a noi, e noi con Lui. Per amore di Nostro Signore Gesù Cristo nella Presenza Reale bisogna essere pronti a dare la vita.

Si tratta non di una Presenza meramente spirituale, come quando due o tre persone sono riunite nel Suo Nome, bensì, ribadiamo, della Presenza Reale, sostanziale, di Nostro Signore, Corpo, Sangue, Anima, e Divinità: ciò che esige da noi l’onore più grande che ci sia, cioè l’adorazione.

L’adorazione dovuta al Santissimo fu stabilita dalla Chiesa nelle disposizioni seguenti: farsi un segno di croce entrando in chiesa; fare una genuflessione; stare zitti; mettersi umilmente in ginocchio quando viene sull’altare e quando viene alzato dal celebrante, con la parola usata da san Giovanni Battista quando, con gli occhi del corpo, vide il Salvatore così chiaramente come adesso noi Lo vediamo con gli occhi dello spirito: Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi! E poi siamo tenuti ad inginocchiarci per ricevere la santa Comunione (se siamo nello stato di grazia), riceverLa sulla lingua, fare un ringraziamento dopo.

Essendo il Signore realmente presente in chiesa, bisogna tacere non solo con la lingua, ma anche con la mente: scacciando pensieri sconvenienti e distrazioni, ed evitando di osservare gli altri; indirizzando piuttosto la mente ed il cuore verso Colui Che ci ha amati fino alla morte.

L’evangelista racconta che il popolo ‘fu saziato dal cibo che aveva ricevuto’, un’immagine del nostro saziamento nella santa Comunione: ciò che è se stessa immagine del saziamento definitivo dell’anima di Dio in Cielo. Perchè l’uomo fu creato per Dio e si può saziare solo di Dio: non dei beni fisici come i piaceri dei sensi; non dei beni spirituali finite, come sono la musica, la letteratura, le conoscenze di qualsiasi tipo; neanche della somma totale di tutte le bellezze di questo mondo, ma solo del sommo Bene Che è Dio. L’uomo fu creato da Dio: il suo intelletto per conoscere Dio e la sua volontà per amarLo. L’ intelletto per conoscere non le verità finite di questo mondo bensì la verità infinita che è Dio; la volontà per amare non i beni finiti di questo mondo, bensì il bene infinito che è Dio. L’uomo è stato creato in una parola per l’infinito, per il perfetto e per l’eterno.

Solo con Dio può essere saziato l’uomo, solo con Dio può trovare la pace: ‘Ci avete fatti per Voi, e il nostro cuore è irrequieto fin quando non trova la quiete in Voi’ dice sant’Agostino. Fecisti nos ad te: Ci avete fatti con un orientamento verso di Voi; e il cuore è irrequieto donec requiescat in Te: fin quando non trovi la sua quiete in Voi. L’amore è di due tipi: il desiderio per l’unione e l’unione stessa. Il desiderio è il dinamismo attivo che tende all’oggetto; l’unione è il riposo passivo nel possesso e nel godimento dell’oggetto. Siamo protesi verso Dio, e non troveremo la pace se non quando saremo definitivamente uniti a Lui.

Già su questa terra ci possiamo unire a Dio, poichè la santa Eucarestia è Gesù Cristo, e Gesù Cristo è Dio. Nostro Signore ci dice infatti nel vangelo di san Giovanni: ‘Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame, e chi crede in me non avrà più sete… i vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti… chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna’.

La santa Comunione ci unisce a Lui quaggiù, dunque, ma l’unione stabile ed eterna a Lui sarà solo in cielo. Là coloro che si uniscono a Voi ‘si saziano nell’abbondanza della vostra casa, e li dissetate al torrente delle vostre delizie. Ed in voi è la sorgente della vita, alla vostra luce vedremo la luce.’

Evitiamo il peccato, coltiviamo le virtù, preghiamo, compiamo i doveri dello stato di vita, per poter più degnamente riceverLo nella santa Comunione: per prepararci dopo la fine dei nostri giorni quaggiù ad unirci più intimamente a Lui in cielo nell’unione anticipata dalla santa Comunione.  Amen.

Il Signore risorto appare alla Madonna

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen

Potremmo descrivere quasi come una legge di natura che la prima persona a cui un figlio desidera comunicare una sua gioia intima è alla propria madre, sopratutto se la madre ha bisogna di consolazione; e più fortemente il figlio ama la madre e più fortemente gliela desidera comunicare. Ebbene, Nostro Signore Benedetto non è un’eccezione a questa legge, anzi la esemplifica in modo determinante.

Non si può neanche concepire infatti la gioia che avrebbe sperimentato l’Uomo Dio compiendo la Missione divina di salvare l’umanità, l’atto di amore misericordioso di cui non ce n’è uno più grande; inconcepibile altrettanto è la consolazione che la comunicazione della gioia dovrebbe dare a Sua santissima madre. Lei infatti aveva attraversato tutto un mare amaro di sofferenze anticipate già dal momento dell’Annunciazione; e quanto all’amore che Lui le portava non c’era e non ci sarà mai un amore così grande e così sublime.

Non ci sorprenderà dunque di apprendere che secondo la tradizione della Chiesa, la prima persona a cui il Signore risorto è apparso fosse la Sua santissima Madre. Il fatto che non viene raccontato nei vangeli spiega la consuetudine che ciò che ci fu di più intimo e personale nella vita del Signore non fosse scritto in quelle pagine.

Possiamo quindi immaginare la Madonna a casa da sola, come lo era 34 anni prima, a leggere la sacra scrittura. La prima volta, secondo i padri della Chiesa, leggeva le profezie sull’avvento del Messia e sulla concezione verginale; questa volta chissà se stesse leggendo quelle sulla risurrezione, e si stesse chiedendo come avrebbe avuto luogo. La prima volta, per la porta, la finestra od attraverso il muro, entrava l’angelo; la seconda volta entrò suo Stesso Figlio Divino.

Apprendiamo la meditazione di questi avvenimenti da san Lorenzo Giustiniani (Passione di Cristo XXIII): ‘…andava dicendo tacita nel suo cuore: Credi che sia giunta l’ora in cui mio Figlio, vinte le potenze delle tenebre, liberatosi da ogni peso di mortalità, risorgerà vittorioso? Credi che riuscerò ancora a vedere il mio Gesù che l’anima mia tanto ama, in cui sono riposte tutti i tesori dei miei desideri e delle mie ansie? Che proprio non venga a me questo mio Figlio Unigenito che cerco con tanta attenzione, a cui guardo con tanto amore, che già possiedo con la mia carità e abbraccio con tanta tenerezza ed affetto? Venga, venga il mio Diletto nel talamo della sua ancella, mi mostri il suo volto, risuoni la sua voce al mio orecchio, perchè Lo veda davanti ai miei occhi, e Lo tocchi con le mie mani e Lo baci, Lo abbracci nella mia umiltà, che possa in Lui riprendersi e rifiorire la mia anima che già da tre giorni giace con Lui nell’oscurità del Suo sepolcro.

Mentre quella madre immacolata stava immerse in questi infuocati pensieri, ecco che vede davanti a sè raggiante di splendore sovrumano il suo diletto Figlio. Ella Lo riconosce, si prostra con la faccia a terra, Lo adora, Lo benedice, tocca i Suoi piedi, bagna di lacrime le Sue cicatrici. Ella non ebbe il dolore di sentirsi dire da Gesù quello che sentì dire la peccatrice perdonata, quasi un rifiuto, una proibizione: ‘Non mi trattenere, perchè non sono ancora salito al Padre; né venne chiamata come il discepolo incredulo a mettere le sua dite nelle ferrite lasciate dai chiodi per sanare quasi le piaghe del suo dubbio; no, non udì niente di tutto questo, ma forse piuttosto le dolcissime parole del Cantico: ‘O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perchè la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro.’

Così forse il Figlio andava penetrando il cuore della Ss. Vergine con espressioni di amore, mentre la Madre continuava ad abbracciare e baciare soavemente i piedi del suo Unigenito e la sua anima vibrava tutta di dolcezza ineffabile, piena di un gaudio che non ha confronti sulla terra. Il suo cuore si scioglieva in tenerezze ed affetti estasianti, e da quelle piaghe sanguinanti dai piedi sgorgava come un’onda fragrante…’

Ma forse la Vergine santissima era già rimasta troppo a lungo prostrata ai piedi del suo Signore: ecco, ora si leva, sorretta dalle mani stesse del suo Figlio e da Lui in forma sovrumana è illuminata, istruita su tutti i misteri della fede, sulla Gloria della risurrezione, sulle future condizioni della Chiesa, sul finale giudizio al chiudersi dei tempi, sulla beatitudine degli eletti nel Regno dei cieli, su tutte le verità attinenti alla fede cattolica. Ella doveva essere illuminata su ogni mistero, su ogni punto del credo affinchè la sua vita fosse norma, esempio, luce per le moltitudini dei fedeli.’ Poi, continua san Lorenzo, congedandosi da Lei ‘in un alone di splendore e letizia scomparve dal suo sguardo’.

+ In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen

Emmaus

‏+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Non ci ardeva il cuore nel petto …’

Nostro Signore Benedetto appare oggi a due Suoi discepoli: a Clèopa ed ad un altro, forse la moglie Maria, che stava ai piedi della Croce. Qualora avessero volto lo sguardo indietro all’incontro, quali motivi avrebbero potuto trovare per non meravigliarsi ed umiliarsi in profonda adorazione davanti a Dio; meditando sul fatto che il loro Maestro benamato, Che aveva sofferto ed era morto per loro in modo così crudele ed atroce, era davvero il Messia dell’Antica Alleanza, la Gloria del popolo eletto, anzi Dio Stesso; Che era risorto dai morti ed apparso a loro in forma di un ignoto compagno di viaggio; Che era venuto nella casa, celebrando la santa Eucarestia per loro, e poi scomparso dalla loro vista.

Non ci ardeva forse il cuore nel petto?’ si sono detti. È giusto, commenta san Lorenzo Giustiniani, che quelli casti e puri godano, credendo sinceramente e rettamente a Dio, del fatto che l’Unigenito si sia intrattenuto a parlare con loro in una forma così affettuosa e familiare. ‘È giusto che in quest’estasi si inebrino di fervore, si illuminino di sapienza, si infiammino d’amore al contemplare tanta tenerezza e umanità… udendo le onde divine della Sua Sapienza… Essi avranno sentito nell’anima gioie meravigliose mai provate, in quegli istanti supremi in cui il Verbo eterno del Padre parlava loro con la soavità ineffabile del Suo amore sovrumano. Le Sue parole si saranno irradiato come sprazzi di luce spirituale, la sua voce sarà effusa come rivoli di nettare celestiale, per cui i loro cuori saranno rimasti ineffabilmente inebriati, come pervasi di incontenibile letizia… mentre la loro mente era come sospesa in contemplazione sia per chi loro parlava sia per gli ineffabili discorsi che pronunciava. Era indubbio, essi avranno pur avvertito che nel Signore Gesù c’era qualcosa di divino: ma i loro occhi erano ancora troppo chiusi per riconoscerLo. Gustavano il sapore dolcissimo della Sua Sapienza ed in questa gioia il loro cuore bruciava dell’incendio dell’amore Divino.’

Il Signore spiegava a loro, come spiegherà più tardi agli Undici a Gerusalemme, come la Legge, i Profeti, e persino tutta l’Antica Alleanza parlava di Lui; ossia come avrebbe dovuto soffrire per entrare nella Sua gloria. E poi ‘quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconnobbero. Ma Lui sparì dalla loro vista.’ Dopo, racconteranno come Lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane: fractio panis, la frase che significava la santa Eucarestia nella Chiesa primitiva.

Stolti e tardi di cuore…’

Perchè non Lo potevano riconoscere prima? perchè dubitavano, come ritengono alcuni Padri? Ebbene, come i Discepoli sulla via di Emmaus anche noi siamo in via, ovvero in via per il Cielo; come loro siamo anche noi accompagnati dal Signore, Che, se siamo in stato di grazia, è inoltre nelle nostre anime, nel mistero della Santissima Trinità. Come mai, quindi, non Lo riconosciamo neppure noi: perchè se Lo riconoscessimo, sicuramente Gli chiederemmo aiuto quando ne avessimo bisogno, condivideremmo con Lui le gioie, Gli offriremmo le sofferenze, ci daremmo completamente a Lui come Lui si è dato completamente a noi. E quando entra nella nostra casa nella santa Comunione, sotto il tetto dell’anima, come mai non Lo riconosciamo neanche là, unendoci a Lui più strettamente, ringraziandoLo che è venuto, e dopo imane sofferenze è morto e poi risorto per noi, e solo per noi? Siamo anche noi così ‘stolti e tardi di cuore’?

Resta con noi…’

Dopo aver parlato con loro sulla via, aveva fatto ‘come se dovesse andare più lontano.’ ‘Nei loro cuori’, dice san Lorenzo, ‘Egli era come uno straniero, un pellegrino e quindi avrebbe voluto andare lontano da loro’, ma facendo così sicuramente aveva anche un altro motivo, come quando stava per oltrepassare i Discepoli sul lago: ossìa voleva silenziosamente invitarli a chiamarLo presso loro, nella barca, nella casa, nel cuore.

Resta con noi perchè si fa sera ed il giorno già volge al declino.’ Resta con noi sul nostro viaggio in Cielo: resta con noi, non ci lasciare come il sole che sta declinando ora con una tale velocità sul paesaggio serotino della Terra santa, come le speci della santa Comunione che si sciolgono in noi e ci lasciano senza di Te; resta con noi nella casa dell’anima nella santa Comunione; non sparire dalla casa, non sparire dalla vista, non sparire dal cuore; resta con noi quando la luce di tutte le nostre speranze per questo mondo si appassiranno e si spegneranno, quando le ombre cadranno su questo nostro mondo e si infitteranno; resta con noi quando invecchieremo e farà sera, O Signore e Dio, quando il giorno volgerà al declino e il sole di questo mondo scenderà, tramonterà e sparirà, usque ad senectutem et senium, Deus, ne derelinquas me! Resta con noi per tutta la lunghezza del nostro viaggio e del nostro pellegrinaggio terrestre, Tu Che sei la nostra unica speranza nel tempo e nell’Eternità, fin quando una luce trasfigurata e più gloriosa non si alzi in un mondo più glorioso: la luce che sei Tu, O Lumen Christi, quando Ti vedremo in fine faccia a faccia, Tu Che abbiamo riconosciuto quaggiù nello spezzare il pane.

+In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il difetto dominante

I. La sua natura
Ciascuno di noi ha un temperamento particolare che comprende tutto il nostro modo di sentire, giudicare, simpatizzare, volere ed agire. Questo temperamento va perfezionato da ognuno di noi mediante la pratica delle virtù cristiane. Ciò che può impedire quest’opera di perfezionamento, oppure eventualmente portarci alla rovina eterna, è ciò che si chiama ‘il difetto dominante.’

Padre Garrigou-Lagrange OP lo descrive come: ‘Il nostro nemico domestico albergante al nostro interno… talvolta è come una fessura nel muro che appare solido ma non lo è: come una crepa, impercettibile a volte ma profonda, sulla splendida facciata di un palazzo: un palazzo che un scossa vigorosa potrebbe far crollare fino alle fondamenta.’

Allo stesso modo come una crepa, possiamo scorgere il nostro difetto dominante, ma pensare che esso sia superficiale e non scavi in profondità; oppure, scorta in passato ma intonacata, non la si nota più. Prudenza impone, invece, che, se la crepa nel muro viene vista, la si esamini e se ne valuti la profondità: forse c’è effettivamente un problema strutturale che minacci l’intiero edificio.

Esempi di difetti dominanti sono: la debolezza morale, la pigrizia, la gola, la sensualità, l’irascibilità, e la superbia. Il difetto dominante può informare e caratterizzare il nostro temperamento intiero, compromettendo la nostra virtù dominante, la quale è, per citare di nuovo Padre Garrigou – Lagrange: ‘La felice tendenza della nostra natura’, la quale dovrebbe svilupparsi e crescere con l’aiuto della Grazia. Questa virtù dovrebbe se stesso determinare il temperamento di ognuno.

Valutiamo l’esempio di qualcuno di temperamento passivo, paziente, docile e rassegnato, la cui difetto dominante e’ la debolezza morale, la cui virtù dominante è la dolcezza. Se il difetto dominante prende il sopravvento, la persona sarà preda del rispetto umano, della codardia morale, dell’ irriflessiva conformità alle convenzioni ed alle mode del Mondo, preda dell’indulgenza eccessiva, fino al punto talvolta di perdere completamente le sue forze, anche fisiche.

Non sarà più dolce e mite, bensì semplicemente debole; sebbene si consideri, come anche tutti gli altri lo considerino, dolce, mite, buono, e gentile. La vera dolcezza è andata schiacciata, soppressa, e distrutta dalla debolezza morale. Similmente, alcuno di un temperamento forte può avere come virtù dominante la forza d’animo nell’affrontare l’ingiustizia; come difetto dominante, invece, l’irascibilità e la rabbia. Il pericolo per costui è il dar libero sfogo alla sua irascibilità, cosicché la sua forza d’animo degeneri in violenza irragionevole nelle parole, nelle opere, e nei pensieri, il che può procurare danni indicibili agli altri, ma sopratutto a se stesso.

E’ essenziale quindi, innanzitutto, riconoscere il difetto dominante e poi combatterlo. Scoprendo la debolezza morale in noi, avremo da contrastarla, chiedendo assiduamente a Dio di farci forti, per far fronte ai nostri doveri ed alle nostre responsabilità, ed alle spiacevoli sfide che in continuazione la vita ci pone, anche se nessuno ci osservi per riprenderci per il fatto di essere negligenti o disimpegnati.

Accorgendoci, invece, che siamo irascibili, bisogna lavorare su noi stessi con la Grazia di Dio and sottomettere la nostra irascibilità ad un controllo rigoroso, e di conseguenza, imparare la dolcezza e la docilità, anche se (come nel caso di sant’ Ignazio Loyola e san Francesco de Sales) questo può comportare un lavoro di molti anni.

Ma in fin dei conti, se siamo al mondo per perfezionarci, non trattasi qua di un lavoro importante? – almeno sullo stesso livello dei doveri del nostro stato di vita, dei nostri impegni quotidiani, e delle opera di carità tramite cui possiamo cercare di aiutare il prossimo. Non si devono amare se stessi, allora, come si ama il prossimo? E il proprio perfezionamento morale non è forse il vero amore per se stessi?

Se le motivazioni di tutto il nostro agire sono viziate – dall’orgoglio per esempio, allora sarà viziato anche tutto il nostro agire; se siamo deboli, invece, allora rinunciamo a molte azioni buone che avrebbero portato a loro volta a molte conseguenze positive; se siamo irascibili e rabbiosi, combiniamo attorno di noi, secondo la parola dello stesso padre Garrigou-Lagrange, ‘ogni tipo di disordine’; se siamo critici verso gli altri e nutriamo e coltiviamo le antipatie, allora contravveniamo costantemente al comandamento del nostro Signore di amare il prossimo.

Col passare del tempo, il difetto dominante diviene abitudine, ed informa e colora tutto il nostro temperamento, cosicchè divenga per noi cosa naturale sentire, giudicare, pensare, ed agire secondo la sua influenza; e perciò diviene per noi difficile riconoscere la presenza di quel difetto, perchè di esso ci siamo gia’ totalmente impregnati.

Oppure, se lo individuiamo, difficilmente lo ammetteremmo – soprattutto se siamo superbi. Ma se pure individuiamo la presenza di questa crepa nel muro, e la ammettiamo altresì, rifuggiamo dal volerla esaminare se siamo moralmente deboli, o se temiamo la conversione, e, con ciò, il dover cambiare le abitudini e la vita intera.

Nel frattempo entra il demonio con le sue astuzie. Lui conosce bene il nostro difetto: ci lavora sopra sin dall’inizio della nostra vita. E` lui stesso che ha intonacato la crepa e l’ha verniciata, o aiutatoci a farlo. Aumenta la nostra cecità nel non vederla, la nostra superbia nel non ammetterla, la nostra paura di dover poi ricostruire tutto l’edificio, se ciò si ha da fare.

II. Come scoprire il difetto

Abbiamo detto che il difetto dominante può informare e colorare il nostro temperamento intiero: il modo in cui sentiamo, giudichiamo, simpatizziamo, eserciamo la volontà, e agiamo. Se lo potessimo identificare, per trasformarlo, potremmo gradualmente cambiare il temperamento per il meglio e divenire persone migliori: più amorevoli verso Dio e verso il prossimo; più in pace; più pieni della luce della Grazia; più felici; più in grado di diffondere la luce di Dio in questo mondo e nel Cielo.

Sarebbe una grande grazia, dice padre Garrigou-Lagrange, incontrare un santo che ti potesse dire: “Questa è il tuo difetto dominante; questa è la tua virtù dominante. Con questa virtù devi vincere il difetto, e poi informare e colorare tutto ciò che fai, pensi, e dici: i tuoi sentimenti, i tuoi desideri, la tua visione di tutto.” Questa virtù è, per così dire, il veicolo nel quale bisogna avanzare attraverso il mondo con generosità e determinazione sulla via dell’unione con Dio.

Sarebbe davvero una grazia trovare un tale santo, ma altrimenti come possiamo scoprire il difetto dominante? Scoprirlo all’inizio della vita spirituale o della nostra conversione, è cosa relativamente facile. Ma col passare del tempo, ci abituiamo, e giudichiamo tutte le cose nella sua luce; si impadronisce dell’anima, e, scendendo poi nel più profondo del nostro essere, si presenta persino come parte di noi stessi. Ci abituiamo: anzi ci identifichiamo con esso e non ce ne possiamo più separare. Dopo essersi ben radicato in noi (osserva il nostro colto e saggio teologo) ripugna ad essere smascherato e combattuto, perché vuol regnare in noi e su di noi: si nasconde, anche dietro l’apparenza di virtù.

La debolezza si traveste negli abiti poveri dell’umiltà; l’orgoglio in quelli della magnanimità; l’ira nell’apparenza di giustizia e di santo zelo. L’uomo, il maestro dell’ autoinganno, finisce per vantarsi proprio di quel difetto che è il suo peggior nemico, e lo esalta come se fosse una virtù. Se il prossimo ci accusa di quel difetto, rispondiamo con convinzione: “Caro mio, avrò pure tanti difetti ma ti assicuro che questo non è fra loro.” Anche se lo dovesse menzionare il Direttore spirituale, scuotiamo solennemente la testa, e le giustificazioni si presentano prontamente alla mente. Di fatti il difetto dominante eccita facilmente le passioni: le comanda come maestro ed esse obbediscono all’istante. Il suo bell’aspetto e la sua forza ci spingono verso l’impenitenza. Vediamo un esempio notevole in Giuda il traditore, pessimus mercator: la parsimonia conduce all’avarizia, l’avarazia alla tradizione, la tradizione all’impenitenza.

Intanto, il nemico della nostra anima che conosce quel difetto, ne fa uso per suscitare problemi dentro di noi ed intorno a noi: conflitti, scontri, sgradevolezze, e tumulti: tempeste nella anima, tempeste negli incontri con altrui. Nella cittadella della vita interiore, il difetto dominante rappresenta il punto debole, non difeso dalle virtù. Qui regna come un nemico all’interno delle mura: nascosto, travestito, e potente. Il demonio conosce il difetto, quel nemico interno: sa precisamente dove si situa e lavora con esso per distruggere la cittadella. Se noi stessi lo ignoriamo, allora non lo possiamo combatterlo. Se non lo possiamo combattere, non possiamo avere una vera vita interiore, e perciò faremo solo pochi progressi in questo mondo.

Come dunque trovarlo? Primo con la preghiera: “Mio Dio, che cosa è che mi fa resistere alla Vostra Divina Grazia? Vi prego di darmi la forza di sottomettermi ad essa. Liberatemi dai miei legami, per quanto possa essere doloroso.” Secondo, esaminiamo la nostra anima con realismo spietato: Qual è il tema delle mie solite preoccupazioni – al mattino quando mi sveglio e quando sono da solo? Dove se ne volano i pensieri e i desideri spontaneamente? Qual’ è per me la solita causa della tristezza e della gioia? Qual’è in genere la motivazione delle azioni e dei peccati? Qual’è per me la natura delle tentazioni, ed il motivo della resistenza alla Grazia (in particolare quando mi allontana dalle preghiere o mi distrae in esse)? Terzo, cosa criticano gli altri in me: – il mio Direttore spirituale, se ne ho uno; la mia famiglia; quelli con cui vivo; quelli che mi conoscono meglio? Quattro, in che modo mi ispira lo Spirito Santo in momenti di vero fervore? Che cosa mi chiede di sacrificare per amore di Lui? Se mettiamo in pratica queste misure con sincerità e costanza di spirito, ci troveremo faccia a faccia con quel nemico interiore che ci rende schiavi. Nostro Signore ci dice nel Vangelo di san Giovanni (8,34): “Chiunque ha commesso il peccato è schiavo del peccato.”

San Giacomo e san Giovanni volevano chiamare il fuoco dal cielo su una città che rifiutava di riceverli. Ma il Signore rimproverò questi ‘Figli del Tuono’ (Boanerges), dicendogli: “Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto per distruggere, ma per salvare” (Lc. 9.55). Ma già all’Ultima Cena vediamo San Giovanni contentarsi solo a posare tranquillo la testa sul Cuor Divino del Salvatore; e alla fine della vita fece poco altro, si dice, che non di ripetere in continuazione: “Figliuoli miei, amatevi l’un l’altro.” Non aveva perso nulla dell’ardore né della sete di giustizia, ma si erano spiritualizzati ed elevati mediante una straordinaria dolcezza.

III. Come vincere il difetto dominante

Quando, con la grazia di Dio, avremo scoperto il nostro difetto dominante, bisogna prendere la ferma decisione di vincerlo. Per fare ciò, occorre un vero e stabile fervore della volontà, una ‘prontezza della volontà nel servizio di Dio’, che, secondo San Tommaso, è l’essenza della vera devozione. Ora ci sono tre mezzi principali per superare il difetto dominante: 1) la preghiera; 2) l’esame di coscienza; 3) la sanzione.

1.) La preghiera

Una volta che Dio avrà risposto alla mia preghiera per mostrarmi quale sia il difetto dominante, dovrei essere assidua e fervente nell’implorare il Suo aiuto per vincerlo. Se sono debole, pregherò: “O Dio, mia forza, datemi la forza!”; se sono irascibile: “O Dio, mia pazienza, datemi la pazienza!”; se sono sensuale: “Mio Dio e mio tutto!”… e così via. I santi hanno pregato nei seguenti modi: san Luigi Bertrand: “Signore, qui bruciare, qui tagliare, qui prosciugare tutto ciò che mi impedisce di venire a Voi, affinché possiate salvarmi per l’eternità.” San Nicola di Flue: “Mio Signore e mio Dio, prendete tutto che in me mi ostacola da Voi; Mio Signore e mio Dio, datemi tutto che mi porta a Voi; Mio Signore e mio Dio, toglietemi da me stesso e datemi interamente a Voi.”

2.) L’esame di coscienza

È assai utile fare ogni sera un esame di coscienza particolare sul difetto dominante: non solo un esame generale che è utile a tutti come parte delle preghiere serali, e cioè per valutare la vita spirituale in genere; ma il dare uno sguardo concentrato a quella debolezza in particolare che tante volte in passato è stata la causa della mia rovina.

Sant’Ignazio di Loyola considera molto benefico che i principianti annotino ogni settimana il numero di volte in cui hanno ceduto a quel difetto dominante che vuole regnare in loro come un tiranno. Padre Garrigou-Lagrange commenta: “È più facile ridere di questa pratica che non di esercitarla fruttuosamente.” Se teniamo conto dei soldi che spendiamo e riceviamo, perché non dovremmo tenere conto di ciò che perdiamo e guadagniamo nel campo spirituale, che sono poi perdite e guadagni per l’eternità?

3.) La sanzione

È anche molto utile imporre a noi stessi una sanzione o una penitenza ogni volta che cadiamo in questo difetto. La penitenza può assumere la forma di una preghiera particolare, un momento di silenzio, o una mortificazione esteriore o interiore. Questo ci aiuterà ad essere più prudenti per il futuro, e ripara la colpa e soddisfa la pena per essa dovuta. In questo modo molte persone sono guarite, per esempio, dal pronunciare bestemmie o maledizioni, obbligandosi a fare l’elemosina ogni volta che cadevano.

Nel combattimento arduo contro il difetto predominante bisogna armarci di coraggio. Potremmo essere tentati alla pusillanimità, particolarmente da parte del diavolo, pensando innanzitutto che non saremo mai in grado di sradicarlo, mai in grado di dominare noi stessi. Ma non conviene far pace con i nostri difetti: altrimenti abbandoneremmo del tutto la vita interiore, assieme all’unico scopo che abbiamo in questa vita che è cioè la perfezione. Dio ci ha comandato di essere perfetti, quindi deve essere possibile: ossia con la Sua Grazia. Il Concilio di Trento dichiara con Sant’Agostino: “Dio non comanda mai l’impossibile, ma, nel darci i Suoi precetti, ci comanda di fare ciò che possiamo e di chiedere la Grazia per fare ciò che non riusciamo.”

Un’altra tentazione alla pusillanimità viene dal paragonarci ai santi canonizzati. Ci scoraggiamo e ci diciamo che la lotta contro i difetti convenga solo a loro, perche solo loro vengono chiamati a raggiungere le regioni più alte di spiritualità e di santità, che non sono dunque per noi. Eppure, come abbiamo già detto, nostro Signore ci ha comandato tutti di essere perfetti: di amarLo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, tutte le forze, e di amare il prossimo come noi stessi. Questo, dunque, è compito di tutti, anche se il nostro amore potrebbe non essere mai così straordinario come quello dei santi canonizzati, con tutte le grazie e doni straordinari che avrebbero ricevuti.

Prima di vincere il difetto dominante, le nostre virtù sono poco più di buone inclinazioni e non vere e solide virtù con radici profonde. Quando, però, con l’aiuto di Dio, vinciamo il difetto, le virtù, sotto i raggi nutrienti della Carità, divengono ferme e forti. La Carità, cioè l’amore di Dio e delle anime, viene a regnare nelle nostre anime attraverso la virtù dominante; trasforma il nostro temperamento, rendendoci più veri, più noi stessi: noi stessi senza i nostri difetti, noi stessi nella Carità, in Dio. La pace entrerà nell’anima assieme alla gioia interiore che porta con sé: la pace che è la tranquillità dell’ordine che abbiamo ristabilita nelle anime con la mortificazione, cioè con la lotta contro il proprio male.

Ci apriamo a Dio come un fiore che si apre al sole: non facciamo più di noi stessi il centro di tutto, come quando regnava in noi il difetto dominante. Ormai facciamo riferire tutto solo a Dio: pensando sempre a Lui, vivendo sempre per Lui, e riconducendo a Lui tutti quelli che incontriamo. Dio ha esaudito la nostra preghiera: ci ha tolti da noi stessi per farci interamente Suoi; non abbiamo perso nulla: solo il nostro male; e abbiamo guadagnato il nostro vero essere: il nostro vero essere in Lui.

Deo Gratias!

La grazia iniziale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Vari sono i motivi della conversione: un raggio di luce sovrannaturale può entrare nel cuore per illuminarci sulle verità della Fede, guardando ad esempio un quadro del Signore nell’orto di Getsemani o sentendo un canto della Chiesa ed accorgendoci subitaneamente che il Signore ha davvero vissuto su questa terra e davvero ha sofferto un’infinità di dolore per noi, per ciascuno di noi: Ave verum Corpus natum ex Maria Virgine… vere passum, immolatum in cruce pro homine.

Oppure ci può convertire la sofferenza personale: la perdita di una fortuna, di una madre, o di un figlio amato da noi sopra ogni altro – tragedie di qualunque genere che ci fanno cercare l’abbraccio amorevole di Colui Che solo conosceva e conosce la amarezza della sofferenza fino alla fine: usque in finem, e il solo Che può consolare un cuore spezzato dal dolore.

Un altro impeto può essere l’intuizione della propria miseria, paragonandoci magari con una persona di grande virtù di cui uno dice ‘Tutto ciò che faceva era perfetto.’ ‘Quanto sono misero’, mi dico cominciando a guardare l’elenco di tutti i miei peccati, la mancanza di impegno, la superficialità di tutto ciò che faccio, la pigrizia, la tiepidezza, l’inaffidabilità, l’egoismo.

Un altro motivo ancora è il pensiero dell’Eternità, osservando la vanità ed il carattere passeggero delle cose quaggiù: la nullità dei progetti e delle speranze di questo mondo, l’instabilità della felicità terrena, l’appassire della giovinezza, della bellezza, della vita che corre come un fiume verso il mare; la morte che richiama conoscenti e famigliari, con cui un giorno mi diverto e che un altro giorno non ci sono più; o leggendo un libro come ‘L’Apparecchio alla morte’ di sant’Alfonso de’ Liguori, riflettendo sulle Verità eterne: sulla morte e sul giudizio che inesorabilmente mi aspettano, così mi stacco dalla vita presente e comincio a bramare la vera vita, la vita nella pienezza, nella sua stabilità eterna.

Guardiamo questa donna dura e superba, ricca, spiritosa, come è ridotta: il marito l’ha lasciata per un’altra, il figlio è morto in un incidente, prende un lavoro semplice ma non sa ancora come pagare le tasse. La sofferenza l’ha invecchiata e non è più l’oggetto di lode o di ammirazione dei conoscenti. Fa compassione agli amici: ‘Poverina, ha perso tutto! La vita com’è crudele!’ Ed in fatti perso che ha l’amore, la fortuna, la bellezza, non ha più su cui appoggiarsi – se no su Dio. Va a trovarLo nel Santissimo Sacramento, ‘si versa il suo cuore alla Sua presenza’, versa il nardo dell’alabastro spezzato del cuore davanti a Dio: la sua unica speranza. Torna alla pratica della fede, si confessa, assiste alla santa Messa, prega. Il tempo passa e pian piano il cuore si trasforma, si amorbidisce, ed ella diviene una persona compassionevole, un appoggio, una madre, per molti.

E quest’altra donna, umile e generosa, di cuore buono ed affettuoso, portata dalle circostanze della vita nelle cattive compagnie. Si dà il cuore e l’affetto agli uomini, si lancia la barca dell’anima sul mare agrodolce degli affetti umani, nel mare turbulento delle passioni: sballottata dalle onde, dalle correnti e dai venti dell’amore impuro, della rabbia, della tristezza, della disperazione, nella notte delle menzogne e dei tradimenti, perso il timone, persa la bussola, perso Dio: dans la nuit éternelle emportés sans retour.

Già superato i settanta anni frequenta sempre le compagnie mondane, ricercata ed amata per la personalità allegra ed attraente: beve, ride, racconta storie sconcie, avida di pettegolezze, dando scandalo e cattivo esempio. Un giovane, però, vedendola, e commosso di compassione e di timore per la sua salvezza, comincia a svolgere ogni giorno preghiere fervorose per lei a Dio. Mesi passano, anni, fin quando un giorno, guardando i funerali del papa e meditando sul suo coraggio e la sua forza di spirito, all’istante si converte. Assiste ad un corso di catechismo, diviene membro della Chiesa, si confessa, comincia a pregare, cambia vita. Il cuore, fatto per Dio, si stacca da amori minori e si attacca a Lui; si raccoglie in se stessa, si raggiunge la pace profonda. ‘E’ un’altra persona!’ dicono gli amici.

Non dimentichiamo di pregare per la conversione dei peccatori, anche per i conoscenti e per i propri famigliari. Chi sa chi abbia pregato per noi e per quanto tempo, mentre anche noi eravamo lontani da Dio, sul mare amaro del mondo, persi, senza orientamento, rei di morte; quando abbiamo detto: Io sono perfetto, ‘io sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla’, invece ero ‘né caldo né freddo… infelice, miserabile, povero, cieco, e nudo.’ (Apc. 3.)

Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt et adduxerunt in montem sanctum tuum et in tabernacula tua: Mandate la Vostra luce e la Vostra Verità, o Signore, nelle tenebre della mia anima, e nelle tenebre di tante altre: nelle tenebre dell’ignoranza e del peccato, per illuminarci sullo stato dell’anima, come lo è in rapporto a Voi, o Eterna Verità, Eterna Bontà, il nostro Ultimo Fine, la nostra Eterna Felicità! Conduceteci al Monte santo Vostro, cioè alla Vostra santa Chiesa, ed al Vostro tabernacolo, affinché ci possiamo dimorare con Voi tutti i giorni della nostra vita.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La carne: il nemico interno

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

I tre nemici dell’uomo

‘La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti’ (Efesini 6, 12).

La nostra battaglia non è dunque una battaglia fisica contro nemici fisici che ci possono arrecare danni meramente fisici: come la sofferenza di questa vita e la morte del corpo; bensì una battaglia spirituale contro nemici spirituali: perché il male vero e proprio è un male spirituale, cioè offendere Dio e soffrirne le conseguenze che sono i patimenti eterni e la morte eterna, sia del corpo che dell’anima. Il male fisico paragonato con questo male è di poco conto. ‘Piacesse a Sua Maestà’, dice santa Teresa d’Avila, ‘che temessimo ciò che dobbiamo temere e che comprendessimo che ci può venire un danno maggiore da un solo peccato veniale, che da tutto l’inferno unito assieme.’

Questa è la battaglia di cui consiste tutta la nostra vita con i progressi, con le cadute, con le vittorie e le sconfitte, con le ferite, con il coraggio che susciteremo o con la codardia a cui cederemo, e, in una parola, con la gloria con cui saremo premiati alla fine o la vergogna con cui saremo puniti.

Chi sono i nostri nemici se non sono gli uomini,le bestie, e le malattie? Sono tre di numero: il Mondo, la Carne, ed il Demonio, o piuttosto tutta una milizia di demoni, radunata assieme per rubarci del nostro bene più prezioso che è cioè l’anima immortale: per conservare questa dai loro attacchi, per purificarla e per perfezionarla siamo stati creati, e stiamo lottando ad ogni momento della vita.

Fare il bene ed evitare il male: fare il dovere verso Dio ed il prossimo, il dovere dello stato della vita, fare il bene che ci ispirano lo Spirito Santo e l’angelo custode; evitare gli atti, le parole, i pensieri cattivi: Agendo così facciamo progressi nella vita spirituale e guadagnamo vittorie; non agendo così cadiamo in dietro, soffriamo ferite, sconfitte, diveniamo preda al Demonio.

Come agiscono i nostri nemici? Il Demonio agisce o direttamente sull’anima introducendo pensieri o immagini cattive, sconcie, contro la carità, la castità, e tutte le virtù cristiane, suscitando o aumentando passioni sregolate; agisce indirettamente tramite il Mondo, ossia tramite gli uomini che sono i nemici di Gesù Cristo. Questi uomini possono essere o consapevoli o inconsapevoli: tentando di abbinare il loro inveterato edonismo con una pratica superficiale della fede e delle virtù. I massmedia, le cattive compagnie, l’esempio di personaggi pubblici, sono tutte trame per far passare il messaggio diabolico e mortifero: ‘Coroniamoci di rose prima che avvizziscano.’

Ma il Demonio ed il Mondo non ci possono fare il minimo male, se non attraverso il terzo nemico che è la Carne. Questo è il nemico interno: il nemico dentro al castello, dentro alla cittadella dell’anima. I nemici esterni non possono entrare nell’intimità della persona senza la collaborazione del nemico interno che regna sull’anima da tiranno nascosto e crudele.

Ora la Carne significa la dimensione morale della natura caduta: una delle conseguenze del Peccato Originale di cui il demonio fu l’istigatore e, per così dire, lo scenografo. Consiste nella concupiscenza degli occhi, nella concupiscenza della carne (nel senso stretto) e nella superbia della vita, o, in altre parole: possessi, piaceri, onori goduti in modo disordinato: senza riferimento a Dio, distolti dal loro giusto orientamento a Dio. Costituisce la fonte interna del peccato che è un movimento che ci allontana da Dio e porta verso l’uomo; via dall’infinito verso il finito, via dall’ordine verso il caos; via dall’essere verso il nulla. Questo disordine dell’uomo e’ ciò di cui il demonio approfitta per attaccarci o direttamente o indirettamente, portandoci alla rovina.

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Le tre concupiscenze come fonte di peccato

Nel commentario sui salmi sant’Agostino constata che: ‘questi tre generi di vizi, cioè il piacere della carne, la superbia, e la curiosità, racchiudono tutti i peccati. Mi sembra che essi siano elencati dall’apostolo Giovanni, quando dice: non vogliate amare il mondo, perché tutte le cose che stanno nel mondo sono concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita.’ Lo stesso sant’Agostino fa notare in seguito che sono le stesse tentazioni con cui il demonio tenta il Signore Stesso, dopodiché l’evangelista commenta che il demonio parte: ‘dopo avere esaurito ogni tentazione.’

Immagini che le illustrano

Le tre concupiscenze sant’Agostino le vede espresse nelle immagini seguenti:‘gli animali del campo, gli uccelli del cielo, e i pesci del mare che percorrono le vie del mare.

‘In modo quanto mai preciso sono raffigurati negli animali dei campi gli uomini immersi nei piaceri della carne, stato dal quale non si innalzano a niente di arduo, a niente di faticoso. Infatti il campo è anche la via larga che conduce alla morte, ed è nel campo che è ucciso Abele…

‘Vedi poi ora negli uccelli del cielo i superbi, a proposito dei quali leggiamo: hanno messo la loro bocca in cielo. Guarda come siano trasportati in alto dal vento coloro che dicono: innalzeremo la nostra lingua, le nostre labbra sono con noi, chi è il nostro Signore?

‘Considera anche i pesci del mare, cioè quei curiosi che percorrono le vie del mare, ossia ricercano nell’abisso di questo mondo le cose temporali; le quali, simili alle vie che si aprono nel mare, all’istante svaniscono e scompaiono come l’acqua che subito si ricompone dopo aver fatto posto alle navi che passano o a qualsiasi altra cosa che transita o nuota in essa. Non ha detto infatti soltanto: camminano per le vie del mare, ma percorrono, mostrando così lo sforzo tenacissimo di coloro che ricercano le cose vane e passeggere’.

Come vincere il nemico interno

La vita, come abbiamo detto, è una battaglia spirituale che vinceremo se ci impegniamo a condurre una buona vita. Abbiamo visto più precisamente che il nemico principale con cui devono collaborare i nemici esterni per poterci far male è quello interno: la Carne. Per questo i nostri sforzi si devono concentrare su vincere quel nemico: agendo così, vinceremo la battaglia intiera, e il demonio non ci potrà più toccare.

‘Questi demoni ci spaventano tanto’ scrive santa Teresa d’Avila, ‘perché noi ci vogliamo spaventare con i nostri attaccamenti agli onori, alle ricchezze, ai diletti: e allora essi, unendosi con noi che ci facciamo nemici di noi stessi, amando e cercando ciò che dovremmo aborrire, ci faranno molto danno, poiché, consegnando nelle loro mani le nostre armi con le quali dovremmo difenderci, li induciamo a combatterci. Questa è cosa che fa molta compassione.

‘Ma se noi aborriamo tutte queste cose per Dio, ci abbracciamo alla Croce e cerchiamo di servire veramente il Signore, vedremo che il Demonio fugge queste verità come noi la peste. Egli è l’amico delle menzogne, anzi è la menzogna stessa. Non verrà a patti con chi cammina nella verità.

‘Ma quando il Demonio s’accorge che l’intelletto è oscurato, abilmente cerca di accecarlo del tutto: se vede uno già tanto cieco da porre il suo riposo in cose vane come sono le cose di questo mondo che sembrano un giuoco da bambini, subito egli comprende che costui è un bambino, lo tratta come tale e osa lottare con lui e anche molte volte.’

Prendiamo dunque sul serio ciò che è serio, e la salvezza dell’anima è ciò che è il più serio che ci sia. Cosa ci attrae, cosa ci trascina, cosa ci fascina ancora? La carne, i possessi, gli onori? l’indulgenza, la gola, la sensualità, il denaro, l‘avarizia, la curiosita’, le conoscenze inutili, la superbia, l’egoismo, l’ammirazione e la lode? Impegniamoci per vincere questi costituenti delle tre concupiscenze per toglierci dal potere del demonio.

‘La vita non è un giuoco’ scrive san Giovanni Crisostomo, ‘poiché non finisce nel riso, bensì piuttosto porta danni estremi su coloro che non sono intenzionati ad ordinare le proprie vie con severità.’ Amen.

Deo Gratias.

Le tentazioni di Cristo

 + In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen
     Le tentazioni di Cristo non sono tentazioni nel senso che Nostro Signore Benedetto fosse suscettibile alla tentazione, essendo Dio e possedendo un’umanità impeccabile, bensì tentazioni da parte del tentatore, del demonio, che tenta il Signore per vedere se Lui sia un mero uomo, e, se lo è, di farLo cadere, se possibile.
     Come farLo cadere? Tramite le tre fonti di peccato nell’uomo, cioè la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, e la concupiscenza della propria eccellenza, ossia la superbia.
     Ora la concupiscenza della carne consiste nel desiderio immoderato di soddisfare i propri sensi: il demonio prova a suscitare questa concupiscenza tentando il Signore di trasformare le pietre in pani. La concupiscenza degli occhi, invece, consiste nel desiderio immoderato di possedere oggetti o informazioni: il demonio prova a suscitare questa concupiscenza tentando il Signore di possedere tutti i regni del mondo. La concupiscenza di sè, ovvero la superbia in fine, è oggetto della tentazione del Signore di gettarSi giù dal tempio per essere sorretto dagli angeli. Tre fonti di peccato, tre concupiscenze, tre tentazioni.
     Da dove vengono queste tre fonti di peccato, o piuttosto da dove viene quella che è la fonte delle due altre, cioè la superbia: dal Peccato originale; Adamo ed Eva si sono staccati da Dio ed attaccati a se stessi, così l’amore per Dio divenne un amore per se stessi. Cos’è l’amore per Dio, dunque, e come si è trasformato nell’egoismo?
     L’amore per Dio è un amore di dono completo di sè a Dio; similmente l’amore di Dio per noi e’ un amore di dono completo di Sè a noi, che comporta dunque che noi accogliamo Dio in noi stessi, che Lo possediamo, fin quanto ciò è possibile per noi esseri finiti e limitati.
     Ma loro non volevano darsi a Dio e non volevano possedere Dio. Quell’amore di dono reciproco divenne per loro un amore esclusivamente diretto all’afferrare ed al possedere in modo egoistico. E l’oggetto di questo amore non fu più Dio, bensì le cose create, amate in modo immoderato e disordinato: senza rapporto verso Dio, senza riferimento a Dio; senza glorificarLo, senza lodarLo, senza ringraziarLo.
     Ora l’atto di ribellione di Adamo ed Eva nello staccarsi da Dio e nell’attaccarsi a se stessi fu così violento che cambiò la stessa natura umana ed acquistò per questo il nome di ‘natura caduta’, la natura caduta con le sue tre concupiscenze: la concupiscenza della carne (per i piaceri dei sensi), la concupiscenze degli occhi (per gli oggetti e per le informazioni) e la superbia (l’amore per se stessi).
     Queste tre concupiscenze divennero in seguito le tre fonti di peccato per ogni uomo dopo Adamo: queste furono dunque il campo in cui il demonio, nella sua ignoranza, ha provato a far cadere persino il Signore. Con queste fece cadere gli ebrei: con la sensualità, l’avarizia, e sopratutto la superbia; con l’avarizia fece cadere Giuda.
     Con tutte e tre fa cadere l’uomo moderno: la sensualità in modi che non occorre neanche evocare; l’avarizia nel materialismo e nelle futili e smisurate ricerche su internet; la superbia nella stoltezza con cui egli presume di negare persino l’esistenza di Dio.

     Anche per ognuno di noi sono queste le fonti di ogni peccato. Dove sono tentato io? nella sensualità, nell’avarizia, nella curiosità, nella superbia? Di queste la più subdola è l’ultima, la superbia, che si chiama ‘il vizio sottile’, perchè sottile da scoprire e sottile da combattere. La invito, caro Lettore, a chiedersi dove si situa il campo di battaglia per Lei. Se vince le concupiscenze, si sottrae dal potere del demonio, raggiunge la pace, si santifica, si avvicina alla perfezione.

Che Dio e la Madonna ci aiutino, i Quali, mai sottomessi alle concupiscenze, hanno compassione per noi, nella nostra miseria. Chiediamo il loro aiuto e lottiamo fortemente per la salvezza dell’anima e per la Gloria di Dio.

 +In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen

I sensi esterni

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Innanzitutto mediteremo sui sensi esterni. La prima cosa da dire sui sensi esterni è che nello stato della natura caduta essi cercano piaceri fino ad un grado disordinato, senza occuparsi troppo della questione della loro liceità. Si può dire di fatti che il corpo cerca soprattutto i piaceri illeciti senza badare ai dettami delle facoltà superiori dell’anima: cioè dell’intelletto e della volontà. I sensi, e parliamo qua principalmente dei sensi della vista, dell’udito, del gusto, e del tatto, sono come porte aperte tramite cui entrano nell’anima impressioni, tra le quali si insinua furtivamente il sottile veleno dei proibiti diletti.

Per questo motivo occorre un’attenzione tutto particolare nell’uso dei quattro sensi: a ciò che guadiamo, ascoltiamo, gustiamo, e tocchiamo.

Quanto alla vista è già chiaro che bisogna evitare l’oscenità, ma anche non soffermarci su ciò che ci possa eccitare la sensualità, e condurre più avanti a pensieri o fantasie fuori luogo. Per mantenere uno spirito di raccoglimento ci è utile altresì di non cedere costantemente ad uno spirito di curiosità – guadando in giro a tutti che passano o, come gli animali, a tutto ciò che si muove intorno.
Quanto all’udito, non ascoltiamo niente che sia contraria alla purezza, alla carità, all’umiltà e alle virtù cristiane, perchè, come dice san Paolo: ‘le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi.’ O non sappiamo come una sola parola, oppure un’allusione o persino una insinuazione possa bastare per seminare nel cuore un’idea malsana che più tardi si può coltivare e trasformare in desiderio? Ma anche se non siamo a rischio di esser trascinati verso i desideri più bassi, tali discorsi ci tolgono la pace, terniscono la purezza di un’anima che ama Dio, e tirano un velo di oscurità sopra la luce della speranza pura ed innocente. I discorsi contro la carità, invece, nelle parole di padre Tanquerey su cui ci appoggiamo in questo articolo, ‘causano divisioni perfino nelle famiglie, diffidenze, inimicizie, rancore.’

Se ci troviamo in cattive compagnie, non partecipiamo alle loro conversazioni, vigiliamo anche sulle minime parole, cambiamo discorso, testimoniamo uno spirito autenticamente cattolico, o, se possibile, ci sottraiamo e evitiamo di frequentare tale persone pel futuro. A cosa servono queste compagnie d’altronde, se no di perdere tempo prezioso, e di contaminare l’anima sia moralmente che spiritualmente?

Per mantenere uno spirito di raccoglimento, è bene inoltre, come abbiamo già fatto notare nel caso della vista, di non ascoltare tutto ciò si dice intorno, per non mancare a niente. ‘Cosa?’ chiediamo, ‘Cosa ha detto?’ quando qualcuno fa un’osservazione che abbia forse interessato o fatto ridere tutti i presenti. Raccogliamoci piuttosto, tacciamo e non indulgiamo sempre la curiosità.

Quanto al gusto, da evitare è l’eccesso di quantità, varietà, e raffinatezza. La quantità può essere o nei pasti o nel mangiare fuori pasti; la varietà viene proposta dal consumismo della società che ci trascina verso una cornucopia sempre crescente di prodotti ricercati. Perché collaborare? E a cosa serve la raffinatezza? Come mai cerchiamo il migliore in tutto? Siamo modesti nel mangiare! E’ cosa buona fare un piccolo rinunzio ad ogni pasto: a volte non prendere di più di qualcosa che ci piace, a volte non prendere il sale o lo zucchero. Proviamo in somma ad evitare ogni eccesso: anzi a non soddisfare pienamente ognuno nostro più piccolo desiderio. Pensiamo al Re dei re che ha scelta liberamente la povertà in tutte le cose.

Una parola sul tatto. Ovviamente occorre la massima cautela nei rapporti con altrui per quanto riguarda questo senso che, più di tutti gli altri, è preda alla natura caduta. Non prendiamo delle libertà con altrui, sapendo bene che non solo noi ma anche loro sono vulnerabili al disordine sensuale.

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Vediamo come occorre un lavoro costante e serio sull’anima. Questo lavoro, per essere efficace, però, si deve abbinare ad un lavoro parallelo sul corpo. Il corpo in fatti è unito strettamente all’anima e questi due principi della persona umana si influiscono potentemente a vicenda. San Paolo scrive: ‘Castigo il corpo e lo riduco in schiavitù’. Nostro Signore Gesù Cristo aveva raccomandato ai discepoli la pratica moderata del digiuno e dell’astinenza, la mortificazione della vista e del tatto. Abbiamo già accennato sopra a queste pratiche, ma vogliamo concludere con qualche altro consiglio sul lavoro da fare sul corpo: non solo lodevole di per se stesso, ma che anche tende a consolidare e rinforzare il rispetto e controllo che dovremmo avere di noi stessi.

La modestia del corpo e la buona creanza ci forniscono un largo campo di mortificazione: portare vesti richieste dalla propri condizione: decenti, semplici, modeste, pulite, senza vanità o affettazioni; camminare modestamente, schivare un contegno singolare, tenere il corpo dritto, non abbandonarci mollemente sulla sedia o sull’inginocchiatoio; non cambiare posizione troppo di frequente, evitare movimenti bruschi e gesti disordinati. Sono mezzi di mortificarci senza pericolo per la salute, senza attirare l’attenzione, e che ci danno intanto grande padronanza sul corpo, e di conseguenza, anche sull’anima: come anche conviene a membra di Cristo, tempi dello Spirito Santo, chiamati a servirLo fedelmente con tutta la vita. Amen. Deo Gratias!

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

I doni dello Spirito Santo

+ In nomine Patri et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

A Pentecoste lo Spirito Santo scese sugli apostoli – nella compagnia della Santissima Madre di Dio – con i Suoi sette doni, affinchè loro andassero tra la gente, ubbidendo al comandamento del Signore: ‘Andate ed insegnate a tutti i popoli’. Questi sette doni vengono comunicati ad ogni cristiano nel battesimo, vengono completati nella Cresima, e sono accessibili a noi quando conduciamo una buona vita e li chiediamo nella preghiera.

Ora, si possono dividere i doni in due categorie: la categoria dei doni intellettuali che illuminano l’intellegenza, e la categoria dei doni affettivi che rafforzano la volontà.

I doni puramente intellettuali sono la scienza, l’intelletto, ed il consiglio.
La Scienza dà un’intuizione sulle cose create nel loro rapporto a Dio: un’intuizione per esempio sulla natura: il sole, l’acqua, i fiori, e gli uccelli. San Francesco godeva di questo dono, guardando le creature (ad esempio nel Cantico del sole) come figli di Dio, creature che lo muovevano alla gioia, al ringraziare ed al glorificare Dio incessantamente. Oppure il dono della scienza può dare un’intuizione sullo stato della nostra anima nel suo rapporto con Dio: un’intuizione di ciò di cui ha bisogno per la sua santificazione. È salutare chiedere il dono di scienza per conoscere in particolare il proprio vizio dominante: cosa principalmente ci muove al peccato? Una volta scoperto, questo vizio si può combattere; una volta vinto ci libera dal vincolo del male.

Il dono dell’Intelletto, invece, dà un’intuizione sulle verità della Fede in se stesse o nel loro rapporto l’una coll’altra – un’intuizione che può avvenire quando, leggendo la Sacra Scrittura, capiamo più profondamente qualche verità di Fede, come la Presenza Reale di Nostro Signore Gesù Cristo.

Il dono del Consiglio è la perfezione della prudenza: ci dice cosa fare o consigliare agli altri, quando una decisione è importante o difficile, e quando la ragione non ci basta. Il dono del consiglio possedevano in alto grado santi come santa Caterina da Siena; di questo dono parla il Signore quando dice: ‘Quando vi consegneranno nella loro mani, non preoccupatevi di come o di cosa dovrete dire, perchè vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire’. Nell’ora delle decisioni importanti e difficili bisogna sempre pregare per questo dono. Troppo spesso agiamo su un impulso o sul parere della prima persona che incontriamo. Dimentichiamo che Dio ha un progetto per noi in tutto, e se chiediamo aiuto a Lui, Lui ci illuminerà.

Il quarto dono di cui trattiamo è quello della Sapienza. Questo dono è allo stesso tempo intellettuale ed affettivo. È come un raggio di sole che illumina e riscalda simultaneamente: illumina l’intelligenza e riscalda il cuore. Per questo, rinforza la Fede, la Speranza, e la Carità e tutte le altre virtù. Fornisce un’intuizione sia sulle cose create che sulle verità di Fede, assieme ad un gusto di loro, permettendoci di vederle e di goderle nella loro fonte e nel loro principio più alto Che è Dio Stesso. In virtù della sua pienezza e della sua sublimità questo dono vale come il dono più perfetto dello Spirito Santo.

Un esempio ne è l’intuizione ricevuta da qualche pio fedele sulla Paternità di Dio, che, già con la pronuncia dell’unica parola ‘Pater’ all’inizio del Pater Noster, non potesse andare oltre, talmente fu afferrato dal mistero del Padre Divino.

Adesso guardiamo i doni puramente affettivi: la pietà, la fortezza, il timore di Dio.

La Pietà è la Carità verso Dio come il nostro Padre. San Paolo esprime questo dono con le parole seguenti: ‘Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo ‘Abba Pater’’ Questa Carità è allegra, generosa, ed affettuosamente ubbediente; comprende la Carità anche verso coloro che partecipano alla santità di Dio: La Santissima Madre di Dio, i santi, la Chiesa (da Sposa Immacolata di Cristo).

Il dono della Fortezza, invece, ci da la forza di compiere e di soffrire grandi cose per Dio, ossia con fiducia e senza paura – fino all’eroismo ed al martirio. Lo Spirito Santo afferra l’anima e le dà un potere che supera tutti gli ostacoli interni ed esterni. Il dono della fortezza possedeva in alto grado santo Stefano che ‘pieno dello Spirito Santo’, ‘pieno di grazia e di fortezza faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo’.

Questo dono ci permette ad esempio di rimanere raccolti tutta la giornata, di non lamentarci mai, di sopportare amichevolmente una persona antipatica o molesta, di non soddisfare in primo luogo i propri desideri, bensì di cedere a quelli degli altri, di accettare tutte le critiche, sia giuste che ingiuste, che si possono fare di noi. Se siamo deboli di carattere, se siamo preda al rispetto umano, se portiamo una croce pesante, preghiamo per questo dono.

Il Timor di Dio infine è una specie di reverenza verso Dio Nostro Padre. La pietà fu la carità verso Dio Padre; il timor di Dio è la riverenza verso di Lui. Questo timore non disturba l’anima, ma fa che l’anima non volle offendere il Padre benamato; ispira un senso della grandezza di Dio, un senso di pentimento profondo, anche per i nostri errori più piccoli, ed un desiderio di cercare la volontà di Dio in tutto. Effettua un rispetto per Dio ed anche per il prossimo come fratello o sorella in Cristo.

*

Preghiamo per godere dei sette doni dello Spirito Santo: preghiamo che ci illumini l’intelligenza e rafforzi la volontà: soprattutto affinchè possiamo vedere più chiaramente cosa vuole Dio che facciamo della vita in tutti i dettagli; e poi metterlo in pratica.

I sette doni sono come sette vele di una barca sulla quale ognuno di noi prende il largo. Il litorale dal quale siamo usciti è Iddio, origine e fonte di tutto essere; il litorale verso il quale ci rechiamo è Iddio, fine ultimo di ogni cosa e perfezione di tutto essere; il vento che riempie le vele della barca nel suo viaggio attraverso il mare amaro e perfido di questa vita è Iddio Spirito Santo, Suave Donatore di tutti i doni della Carità, a Cui, con il Padre ed il Figlio, sia ogni lode, gloria, ed onore per tutti i secoli dei secoli. Amen.

La Santa Eucaristia

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

(sintesi della dottrina raccolta da padre Tanquerey nel suo Compendio della teologia ascetica e mistica)

2. La Santa Comunione

La Santa Comunione effettua un’unione a Nostro Signore, una nuova unione oltre a quell’ adesione per mezzo della Fede, oltre a quell’ incorporazione per mezzo del battesimo. è un’unione che il Signore esprime con la frase: ‘Come Io vivo per il Padre, così colui che si ciba di Me vivrà per Me.’ Quest’unione è insieme fisica e spirituale.

È un’unione fisica in quanto riceviamo ‘veramente, realmente, e sostanzialmente’ il Corpo, Sangue, Anima, e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, come il Concilio di Trento dogmaticamente lo definisce. L’unione è intima quanto quella che esiste tra il cibo e colui che se l’assimila, con questa differenza però che (nelle parole di sant’Agostino, Conf. 7, 10): ‘Non sarai tu che trasformerai in Me, come il cibo corporale: sarai tu trasformato in Me’. Quest’unione tende a rendere la nostra carne più sottomessa allo spirito e più casta, e depone in lei un germe d’immortalità.

L’unione è anche spirituale, unendo le nostre facoltà dell’ intelligenza, della volontà e del cuore a quelle del Signore. Per questo motivo la nostra intelligenza viene indirizzata verso Dio e le cose di Dio, verso le verità della Fede e le massime evangeliche, così che possiamo giudicare tutto alla luce di Dio, e sopratutto la vanità e la follia del Mondo e delle sue massime; la nostra volontà debole, incostante, egoista viene informata dalle energie Divine così che possiamo dire con San Paolo ‘Io posso tutto in Colui Che mi fortifica’; il nostro cuore viene infiammato d’amore per Dio e per le anime così che possiamo dire con i discepoli di Emmaus: ‘Non ci ardeva forse il cuore?’ alla Sua presenza.

Gradualmente dunque i nostri pensieri si modificano mentre ci chiediamo: Che farebbe il Signore Gesù se fosse al mio posto? I desideri volano verso la gloria di Dio e la nostra salvezza e dei nostri fratelli; il cuore si aderisce sempre più intimamente a Dio per Cui intraprendiamo grandi cose; i fratelli li amiamo cercando il loro bene spirituale piuttosto che godendo il loro affetto per noi e il nostro per loro.

Una parte di questo influsso Divino su di noi lo possiamo attribuire allo Spirito Santo Che vive nell’anima del Signore e, assieme al Padre, abita nella Sua Persona Divina. A Lui attribuiamo le grazie attuali che riceviamo ormai in abbondanza, le ispirazioni, la forza e l’amore, assieme alla Sua protezione e guida.

Ma a causa dell’abitazione della Divine Persone l’Una nell’Altra, è presente nell’anima non solo lo Spirito Santo, ma anche tutta La Santissima Trinità. Unendoci al Verbo Incarnato nella Santa Comunione dunque, ci uniamo anche ad Ella. La Santissima Trinità viene a noi ed in noi ‘fa dimora’ (Gv.14.23) cioè in tutta la Sua pienezza e nelle Sue relazione reciproche Divine. L’abitazione della Santissima Trinità nell’anima ci rende come un prolungamento del Verbo Incarnato e ci rende amabile alla Stessa Trinità. In questo modo la Santa Comunione è davvero un anticipato Paradiso: esse cum Jesu dulcis Paradisus (Imitazione di Cristo 1.2.8).

*

Per trarre il massimo profitto dalla santa Comunione bisogna circondarla con le dovute preghiere e disposizioni.

Preparazione

1) La preparazione deve comprendere un amore verso il Signora innanzi tutto attivo, cioè per mezzo dell’adempimento fedele dei doveri del proprio stato di vita per piacere a Lui. Il Signore disse in fatti: ‘Chi Mi ama osserva i Miei comandamenti’; e, parlando di Se Stesso rispetto al Padre: ‘Ciò che piace a Lui sempre lo faccio ’ (Gv 8.29).

2) Poi l’amore si deve cristallizzare in desiderio ardente di unirci a Lui nella Santa Eucarestia, sentendo vivamente la nostra impotenza e povertà, sospirando a Lui Che solo può fortificarci ed appagare il cuore, ed imitando infine il Suo desiderio di unirSi a noi con il quale disse: ‘Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum.’ (Lc 22.15).

3) In terzo luogo ci dobbiamo preparare con una sincera umiltà, fondata sulla Sua grandezza e santità, e sulla propria bassezza ed indegnità, svuotando il cuore dell’egoismo e aprendolo all’intrata del Divin Re.

Risposta

La risposta da parte nostra alla santa Comunione comporta la preghiera mentale, e poi tutti i quattro tipi di preghiera vocale che abbiamo enumerati sopra.

1) Susseguentemente alla santa Comunione la prima preghiera deve essere un atto di silenziosa adorazione, di annientamento, di intiera donazione di noi stessi a Colui che ci si dà intieramente a noi. Scrive padre Tanquerey: ‘Nulla fa meglio penetrare Gesù nel più intimo dell’anima nostra quanto quest’atto di annientamento di noi stessi; povere creature, è questo per noi il modo di darci a Colui Che è tutto’.

2) Poi parliamo in modo intimo, semplice, affettuoso, ma sempre rispettoso, al Maestro ed all’Amico, Che è allo stesso tempo Dio. Ci apriamo alle Sue comunicazioni Divine, sia alle Sue parole che alle Sue disposizioni interiori ed alle Sue virtù.

3) RingraziamoLo per il dono sublime di Sè Stesso nella santa Comunione, ma anche per tutti i Suoi doni e lumi, nonche per le sofferenze e le croci che Lui, nella Sua onniscienza e nel Suo infinito amore per noi, si degna di affidarci;

4) Ci offriamo e doniamo a Lui come Lui si dona a noi nella santa Comunione, pentendoci del nostro passato e dichiarandoci pronti a fare tutti i sacrifici necessari per trasformare e riformare la nostra vita, sopratutto in un punto particolare, come può essere di superare il vizio dominante o progredire in una determinata virtù;

5) Preghiamo per tutti i nostri cari, per la Chiesa, il papa, e tutte le intenzioni le più pressanti di oggi. ‘Non temiamo di rendere la nostra preghiera universale’ dice padre Tanquerey, ‘quanto più è possibile: è questo in sostanza il miglior mezzo d’essere esauditi.’

‘Infine si termina chiedendo a Nostro Signore’, aggiunge lo stesso pio autore ‘…la grazia di restare in Lui come Egli resta in noi, e di fare tutte e ciascuna delle nostre azioni in unione con Lui, in ispirito di ringraziamento. Si affida a Maria quel Gesù da Lei così ben custodito, perchè ci aiuti a farLo crescere nel nostro cuore; e così, riconfortati dalla preghiera, si passa al lavoro.’

Deo Gratias!

La Santa Eucaristia

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

(sintesi della dottrina raccolta da padre Tanquerey nel suo Compendio della teologia ascetica e mistica)

1. L’Assistenza alla santa Messa

Nella santa Messa viene reso presente il sacrificio di Sè Stesso sul Monte Calvario di Nostro Signore Gesù Cristo. In quanto la santa Messa è identica al santo Sacrificio, lo rende presente in modo reale davanti ai fedeli; in quanto il sacrificio è offerto da Nostro Signore Stesso viene offerto in modo definitivo e perfetto. La santa Messa dà dunque ai fedeli assistenti l’occasione di godere delle grazie che emanano dal santo Sacrificio riccamente, secondo il principio tomista: ‘Più vicino si è alla fonte di una cosa più riccamente si gode della cosa’. Come devono assistere? Chiediamo prima con quale spirito e poi con quale azione.

Con quale spirito devono assisterci dunque? Con uno spirito di modestia, di annichilamento e di umiliazione, di timore reverenziale e devozione di fronte all’infinita Maestà di Dio ed alla Sua morte sacrificale per amore di noi, per quale scopo Si degna con infinita condescendenza ed umiliazione scendere sull’altare ed immolarSi davanti agli occhi di noi, miseri peccatori. Si assiste inoltre con uno spirito di detestazione dei propri peccati che furono la causa della morte sacrificale del Signore.

Con quale azione ci devono assistere? Coll’unirsi al santo Sacrificio del Monte Calvario, offrendo il sacrificio di Se Stesso del Divin Agnello al Padre ed aggiungendo ad esso il sacrificio di sè. Unendoci al Sacrificio, come assistenti alla santa Messa o, più ancora, da celebranti, rendiamo a Dio tutti gli omaggi che Gli sono dovuti, facendo nostri gli omaggi dell’Uomo Dio al Padre Divino.

Come si uniscono i fedeli al Sacrificio? spiritualmente. Il sacrificio infatti viene offerto fisicamente da Nostro Signore, sacramentalmente dal sacerdote, e spiritualmente dai fedeli. Per capire più da vicino come si uniscono spiritualmente al Sacrificio, guardiamo innanzitutto e brevemente, i fini del Sacrificio.

Ora il Sacrificio della santa Messa viene compiuta per quattro fini: per l’ adorazione, il ringraziamento, l’espiazione, e la petizione. I fini, fin quanto vengono espressi in parole, costituiscono inoltre i quattro generi di preghiera vocale. Questa preghiera, essendo offerta nella santa Messa dall’Uomo Dio, rappresenta il paradigma e l’esemplare della preghiera (vocale), o in altre parole La Preghiera in assoluto.

I fedeli si uniscono alla santa Messa unendosi spiritualmente al Sacrificio per questi fini, dunque: per adorare e ringraziare Dio, per espiare i peccati, e per chiedere grazie a Dio, sia per il mondo intiero, che per persone particolari, come per se stessi e per i propri cari.

Si uniscono a questi fini o assimilandoli semplicemente nel cuore, o esprimendoli con le parole della santa Messa. Nel secondo modo compiono in modo insigne i propri obblighi di preghiera vocale.

In di più possono approfittare dell’occasione la più proficua che ci sia per praticare pure la preghiera mentale – cioè la meditazione e la contemplazione: ossia sugli misteri ineffabili che vengono compiuti davanti a loro, e sopratutto sulla Passione e sulla Morte del Signore.

Così facendo i fedeli possono progredire lontano sulle orme della perfezione, ma saremo anche premiati da Dio che risponde generosamente alla nostra devozione. In risposta all’adorazione ed al ringraziamento offertiGli dalla santa Messa, Si china con infinita condescenza verso di noi. Quando Lo adoriamo e ringraziamo, offrendoci a Lui in ispirito di sacrificio e di gratitudine, Si occupa dei nostri interessi spirituali, tra cui la nostra santificazione che occupa il primo posto.

Rispetto all’espiazione, ci elargisce grazie attuali ed il dono della penitenza, e, secondo il concilio di Trento, quando siamo contriti e pentiti, la remissione dei peccati anche i più gravi e di una parte almeno della pena temporale dovuta al peccato – in proporzione delle disposizioni con cui vi assistiamo. La remissione della pena temporale, secondo lo stesso concilio, vale sia per i vivi che per defunti.

Rispetto poi alla petizione ed aià nostri bisogni anche da noi non espressi, Dio ci elargirà tutte le grazie di cui abbiamo bisogno come membri del Corpo mistico: per la salute dell’anima e del corpo, ‘pro spe salutis et incolumitatis suae’, per la salvezza ed il progresso spirituale.

*

Osserva padre Tanquerey: ‘Chiunque entra in questa corrente di preghiera liturgica con le disposizione volute è sicuro di ottenere per sè e per tutti quelli che gli premono le più copiose grazie’. Ciò che è già efficace per i fedeli da soli è tanto più efficace quando assistono alla santa Messa in persona e si uniscono devotamente all’azione sacrificale ed alle intenzioni del Sacerdote e Vittima divina.

La Confessione

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

i) Peccati mortali

Il peccato mortale si deve confessare con sincerità ed umiltà:
a) secondo la specie ed il numero;
b) già all’inizio della confessione (non nascondendolo tra peccati veniali o imperfezioni);
c) indicandone la causa e chiedendone il rimedio;
d) suscitando una profonda contrizione col fermo proposito di evitare cadute future assieme alle occasioni.

Dopo l’assoluzione occorre un vivo e abituale sentimento di penitenza col desiderio di riparare l’offesa con una vita austera e mortificata e con un amore generoso.

ii) Peccati veniali deliberati

Questi peccati, commessi nella consapevolezza di offendere Dio, ma preferendo il proprio piacere egoista a Lui, sono grandi ostacoli alla perfezione, soprattutto se sono frequenti e vi si è attaccati. Esempio ne sono la maldicenza, l’attacco alla propria volontà, al proprio giudizio o al giudizio temerario, il nutrire affezioni naturali e sensibili. Tali peccati ci vincolono alla terra e ci impediscono di prendere lo slancio verso l’amore divino.

Anche in questo caso bisogna accusarci a fondo, palesare la natura e le cause dei peccati, principalmente di quelli che maggiormente ci umiliano, pentircene, e fare un proponimento assolutamente di evitarli nel futuro.

iii) Peccati di fragilità

Se è impossibile evitare questo tipo di peccato completamente, possiamo comunque diminuirne la quantità. Nella confessione possiamo indicarne in genere i tipi e la frequenza e poi concentrarci su un tipo, indicandone le cause: come per esempio la distrazione nella preghiera per mancanza di coraggio di rispingerla prontamente. Ne segue il proponimento di combattere questo tipo di peccato, un esame di coscienza particolare ogni giorno a riguardo, con un conto da rendere nella prossima confessione. Impegnandoci in questo modo di combattere seriamente i peccati, anche di fragilità, aumentiamo in noi la grazia e la forza per evitare ulteriori cadute e per perfezionarci nelle virtù.

*

La contrizione

Per suscitare in noi la contrizione basta riflettere sull’offesa che abbiamo recata a Dio ed il danno a noi stessi. Il peccato è sempre una resistenza alla Sua Volontà, un’ingratitudine da parte di un figlio ed un intimo amico. ‘Non è un nemico che mi oltraggia… ma tu, tu che eri come un altro me stesso, il mio confidente ed il mio amico; vivevamo insieme in una dolce intimità.’ (Sal 54.13-5).

Allo stesso tempo il peccato mortale fa perdere l’amicizia di Dio e Lo caccia dall’anima; il peccato veniale, invece, rende meno intima ed attiva in essa questa divina amicizia; impaccia la nostra attività spirituale; ne diminuisce le energie per il bene; aumenta l’amor del piacere e predispone al peccato mortale – ciò che è particolamente chiaro nell’ambito della purezza, dove la linea di confine tra il mortale ed il veniale è tenue, ed il piacere seducente. Che queste considerazioni ci aiutino a pentirci dei nostri peccati e fare un buon proponimento, come abbiamo accennato sopra.

Per assicurarci che possediamo lo spirito di contrizione ci possiamo accusare anche di qualche peccato grave del passato, già confessato, sucitandone di nuovo il pentimento. In questo modo riceveremo l’assoluzione in modo proficuo e purificheremo e fortificheremo la nostra anima con la grazia divina per i combattimenti futuri.

I Sacramenti

+In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Un sacramento non solo dà, restituisce, o aumenta la Grazia santificante, ma presta pure una propria grazia ‘sacramentale’ alla persona. Ciò viene inteso come un vigore speciale della Grazia santificante, o come un diritto a grazie attuali speciali, per poter più facilmente adempire a tempo opportuno i doveri imposti dal sacramento ricevuto.

Il Signore ci dice: ‘Domandate e riceverete’(Mt 7.7) e ‘Tutto ciò che domanderete al Padre nel nome Mio ve lo darò’(Gv 17.23). Ne segue con certezza che se chiediamo in unione col Signore di ricevere più grazie da un sacramento, Dio ce le elargirà. Il frutto sarà più grande se lo chiediamo con ardore: ‘Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, (cioè la santità) perchè saranno saziati’ (Mt 5.6); più grande sarà anche se lo chiediamo con la generosità pronta a dare tutto a Dio, e rifiutarGli niente.

Nel sepolcro

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. 

Entrando con lo spirito nel sepolcro, vedo cogli occhi dell’anima il Sacrosanto Corpo di Nostro Signore, splendente nel silenzio e nel buio, di una luce tenue di oro chiaro. Il Corpo infatti è sempre unito alla Divinità, come lo è anche l’Anima, che alla morte lo lasciò per liberare i Giusti dal Limbo.

Vi vedo, o Signore, avvolto nella Sindone, il Volto coperto del velo, come per non mostrarci più le Sacre ferite, adesso che il dolore sia passato, e che finalmente il tempo stabilito dal Padre sia giunto. Consummatum est: Omnis consummationis vidi finem. Latum tuum mandatum nimis. È consumato: di ogni consumazione vidi la fine: il Vostro mandato è compiuto sino alla fine.

Vi vedo davanti a me, Presente nella Vostra Divinità, ma nascosto come nel tabernacolo. Il Corpo morto  rappresenta quello di Adamo, istigatore della propria morte e di quella di tutti i suoi discendenti, il Corpo rappresenta anche noi che abbiamo meritato la morte per tutti i nostri innumerevoli peccati. E su tutto il Corpo, ormai invisibili, le sacre ferite: le cinque ferite della crocifissione, le 5,475 ferite della flagellazione, le ferite delle spine nella testa e persino nel cervello, le ferite delle cadute e nel cuore. Tante ferite Vi abbiamo inflitte! Tante quante abbiamo meritate noi per la nostra malvagità!

O Signore Adorabile, questo dovrebbe essere il mio corpo morto, queste dovrebbero essere le mie ferite, giustamente meritate dal mio peccato: dal mio peccato contro Voi, O Bontà Infinita ed Amore Eterno; ma Voi le avete prese su di Voi in una sofferenza più profonda e vasta di un’infinità di oceani, ma guadagnando con essa il Paradiso, trasformando la morte in vita e le ferite nella costellazione più gloriosa di tutto il creato: l’abbellimento più glorioso della Vostra Sacratissima Umanità.

E così rimarrò prostrato davanti al Dio Uomo, per adorarLo nel buio e nel silenzio, adesso che il dolore sia passato: per ringraziarLo della Sua infinita misericordia verso di me, misero peccatore, donec ego vixero: lungo tutto il corso della mia vita. Amen.

Mezzi per progredire nella vita spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

I Sacramenti
Un sacramento non solo dà, restituisce, o aumenta la Grazia santificante, ma presta pure una propria grazia ‘sacramentale’ alla persona. Ciò viene inteso come un vigore speciale della Grazia santificante, o come un diritto a grazie attuali speciali, per poter più facilmente adempire a tempo opportuno i doveri imposti dal sacramento ricevuto.

Il Signore ci dice: ‘Domandate e riceverete’(Mt 7.7) e ‘Tutto ciò che domanderete al Padre nel nome Mio ve lo darò’(Gv 17.23). Ne segue con certezza che se chiediamo in unione col Signore di ricevere più grazie da un sacramento, Dio ce le elargirà. Il frutto sarà più grande se lo chiediamo con ardore: ‘Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, (cioè la santità) perchè saranno saziati’ (Mt 5.6); più grande sarà anche se lo chiediamo con la generosità pronta a dare tutto a Dio, e rifiutarGli niente.

1) La Confessione

i) Peccati mortali

Il peccato mortale si deve confessare con sincerità ed umiltà:
a) secondo la specie ed il numero;
b) già all’inizio della confessione (non nascondendolo tra peccati veniali o imperfezioni);
c) indicandone la causa e chiedendone il rimedio;
d) suscitando una profonda contrizione col fermo proposito di evitare cadute future assieme alle occasioni.

Dopo l’assoluzione occorre un vivo e abituale sentimento di penitenza col desiderio di riparare l’offesa con una vita austera e mortificata e con un amore generoso.

ii) Peccati veniali deliberati

Questi peccati, commessi nella consapevolezza di offendere Dio, ma preferendo il proprio piacere egoista a Lui, sono grandi ostacoli alla perfezione, soprattutto se sono frequenti e vi si è attaccati. Esempio ne sono la maldicenza, l’attacco alla propria volontà, al proprio giudizio o al giudizio temerario, il nutrire affezioni naturali e sensibili. Tali peccati ci vincolono alla terra e ci impediscono di prendere lo slancio verso l’amore divino.

Anche in questo caso bisogna accusarci a fondo, palesare la natura e le cause dei peccati, principalmente di quelli che maggiormente ci umiliano, pentircene, e fare un proponimento assolutamente di evitarli nel futuro.

iii) Peccati di fragilità

Se è impossibile evitare questo tipo di peccato completamente, possiamo comunque diminuirne la quantità. Nella confessione possiamo indicarne in genere i tipi e la frequenza e poi concentrarci su un tipo, indicandone le cause: come per esempio la distrazione nella preghiera per mancanza di coraggio di rispingerla prontamente. Ne segue il proponimento di combattere questo tipo di peccato, un esame di coscienza particolare ogni giorno a riguardo, con un conto da rendere nella prossima confessione. Impegnandoci in questo modo di combattere seriamente i peccati, anche di fragilità, aumentiamo in noi la grazia e la forza per evitare ulteriori cadute e per perfezionarci nelle virtù.

*

La contrizione

Per suscitare in noi la contrizione basta riflettere sull’offesa che abbiamo recata a Dio ed il danno a noi stessi. Il peccato è sempre una resistenza alla Sua Volontà, un’ingratitudine da parte di un figlio ed un intimo amico. ‘Non è un nemico che mi oltraggia… ma tu, tu che eri come un altro me stesso, il mio confidente ed il mio amico; vivevamo insieme in una dolce intimità.’ (Sal 54.13-5).

Allo stesso tempo il peccato mortale fa perdere l’amicizia di Dio e Lo caccia dall’anima; il peccato veniale, invece, rende meno intima ed attiva in essa questa divina amicizia; impaccia la nostra attività spirituale; ne diminuisce le energie per il bene; aumenta l’amor del piacere e predispone al peccato mortale – ciò che è particolamente chiaro nell’ambito della purezza, dove la linea di confine tra il mortale ed il veniale è tenue, ed il piacere seducente. Che queste considerazioni ci aiutino a pentirci dei nostri peccati e fare un buon proponimento, come abbiamo accennato sopra.

Per assicurarci che possediamo lo spirito di contrizione ci possiamo accusare anche di qualche peccato grave del passato, già confessato, sucitandone di nuovo il pentimento. In questo modo riceveremo l’assoluzione in modo proficuo e purificheremo e fortificheremo la nostra anima con la grazia divina per i combattimenti futuri.

 

Le indulgenze

+In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Introduzione

Abbiamo già fatto notare che un qualsiasi atto buono compiuto in istato di Grazia per un fine sovrannaturale possiede un triplice valore: meritorio, sodisfattorio, ed impetratorio. Il valore sodisfattorio comprende a sua volta un triplice elemento: di propiziazione (rendendoci propizi a Dio ed inclinandoLo a perdonarci); di espiazione (cancellando colpa); e di sodisfazione nel senso stretto (annullando in parte o in tutto la pena dovuta al peccato).

Se ogni atto buono ha il valore di annullare, fino ad un certo grado, la pena dovuta al peccato, ad alcuni atti buoni in particolare viene prestato dalla Santa Madre Chiesa questo valore in modo formale. Questi atti si chiamano ‘indulgenziati’.

Per guadagnare l’indulgenza che accompagna un tale atto occorre l’intenzione almeno generale di approfittarne. L’indulgenza la può applicare il fedele a se stesso o ai defunti.

Ci sono due tipi di indulgenze: l’indulgenza plenaria e quella parziale. Il primo tipo libera la persona in questione di tutta la pena dovuta ai propri peccati e può essere guadagnata solo una volta al giorno; la seconda la libera in modo parziale e può essere guadagnata più volte al giorno.

L’Indulgenza plenaria in genere

Per guadagnare l’indulgenza plenaria, si devono compiere inoltre all’atto stesso le tre condizioni seguenti:
1) la Confessione sacramentale;
2) la santa Comunione;
3) preghiere per il santo Padre (bastanno un Pater ed un Ave).

Note:
i) Queste tre condizioni si possono compiere anche nei giorni prima o dopo l’atto, anche se conviene comunicarsi e pregare per il santo Padre il giorno stesso dell’atto indulgenziato;
ii)  una sola Confessione vale per indulgenze plenarie su più giorni, mentre le altre condizioni si devono ripetere ogni volta che si vuol guadagnare l’indulgenza;
iii)  la persona deve essere priva di qualsiasi aderenza al peccato, pure veniale. Se invece la persona è attaccata al peccato o se l’atto o le condizioni vengono compiuti solo parzialmente, l’indulgenza sarà, anche essa, solo parziale;
iv)  normalmente quando l’atto consiste in una visita ad un luogo, si reciti durante la visita il Credo ed il Pater; quando la visita è legata ad un determinato giorno, si può farla da mezzogiorno della veglia fino a mezzanotte del giorno stesso.

Procediamo offrendo ora un elenco delle indulgenze individuali che si possono guadagnare:
1) quotidianamente;
2) su deteminati giorni; e
3) in determinate circostanze.

Indulgenze plenarie concesse:

1. Quotidianamente
a) Rosario in chiesa o in oratorio, in famiglia, in comunità religiosa etc;
b) Adorazione eucaristica per almeno 30 minuti;
c) Via Crucis davanti stazioni legitimamente erette, o quella papale per radio o televisione;
d) Lettura (o ascolto) della sacra Scrittura per almeno 30 minuti;
e) Recita dell’Akathistos (almeno una parte sostanziosa).

2. In determinati giorni
a) Fine anno: partecipazione devota, in una chiesa o oratorio, al canto o alla recita solenne del Te Deum;
b) Capo d’anno: lo stesso per Veni Creator;
c) Settimana per l’unità dei cristiani: assistenza ad una ceremonia ed alla conclusione;
d) nei Venerdì di Quaresima: dopo la S. Comunione davanti ad un crocifisso la recita di En ego… (Eccomi…)
e) Giovedì santo: alla fine della S. Messa in Coena Domini recita pia del Tantum ergo;
f) Venerdì santo: partecipazione pia alla venerazione liturgica della Croce;
g) Sabato santo (o nell’anniversario del battesimo): rinnova liturgica delle promesse battesimali;
h) Pentecoste: Veni Creator (come (b) sopra);
i) Corpus Domini: partecipazione pia alla processione;
j) Festa dei SS. Pietro e Paolo: visita ad una basilica minore o ad una cattedrale (recitando un Credo ed un Pater); o l’uso devoto di un oggetto pio benedetto da un vescovo: cioè rosario, crocifisso, croce, scapulare, o medaglie, recitando una formula di professione di Fede;
k) Festa del Sacro Cuore: recita pubblica dell’atto di Riparazione al Sacro Cuore;
l) 2 agosto (Porziuncula): visita di una basilica, cattedrale, o chiesa parrochiale (recitando piamente un Credo ed un Pater).
m) 1-8 novembre: visita devota ad un cimitero, pregando per i defunti.
n) 2 novembre (o in altro giorno in cui la Festa di Tutti i defunti viene spostata, o che viene stabilito dall’Ordinario): visita pia ad una chiesa o oratorio (recitando piamente un Credo ed un Pater).
o) Festa di Cristo Re: recita pubblica della Consecrazione del genere umano a Cristo Re.

3. In circostanze particolari
a) In articulo mortis: la benedizione apostolica. Viene raccomandato l’uso di un crocifisso o di una croce. L’ indulgenza vale anche se il moribondo ha già lucrato un’altra indulgenza plenaria lo stesso giorno. Se un sacerdote non può assistere, la Santa Madre Chiesa elargirà l’indulgenza anche senza le tre solite condizioni, se il fedele è ben disposto ed era abituato a pregare.
b) Pia assistenza fisica, per televisione, o per radio, alla recita papale del Rosario o alla benedizione papale Urbi et Orbi, o alla benedizione del proprio vescovo secondo la formula prescritta,
c) Prima S. Messa pubblica di un sacerdote; nonché quella del 25. 50. 60. o 70. anniversario dopo l’ordinazione sacerdotale, rinnovando la risoluzione di compiere fedelmente i doveri; similmente per l’ anniversario 25. 40. 50. dell’ordinazione episcopale di un vescovo. L’ indulgenza vale per il ministro sacro come anche per i fedeli assistenti.
d) Partecipazione religiosa al rito di chiusura di un congresso eucaristico.
e) Assistenza ad una celebrazione liturgica per il fondatore di un istituto di vita consecrata e società di vita apostolica (recitando piamente un Credo ed un Pater).
f) Assistenza nell’anno susseguente ad una canonizzazione o beatificazione, alle solennità nel onore del nuovo santo o beato in una chiesa o un oratorio (recitando piamente un Credo ed un Pater).
g) Visita, nel giorno della festa del titolare, di una basilica minore, una cattedrale, un santuario (internazionale, nazionale o diocesano), o una chiesa parrochiale (recitando piamente un Credo ed un Pater).
h) Esercizi spirituali di almeno 3 giorni interi.
i) Rinnova delle promesse battesimali nell’anniversario del battesimo.
j) Atto di consecrazione di una famiglia al Sacro Cuore o alla Sacra Famiglia (se possibile con un sacerdote o diacono), recitando una formula approvata davanti all’ immagine rispettiva.
k) Visita ad un altare o ad una chiesa il giorno della dedica (recitando piamente un Credo ed un Pater).
l) Partecipazione agli uffici di una chiesa il giorno che è ‘stazione’.
m) Partecipazione pia alla celebrazione di una giornata mondiale destinata ad un fine religioso (come per la gioventù).
n) Visita ad una delle quattro basiliche patriarcali di Roma, o con altri pellegrini e esprimendo durante la visita la sottomissione filiale al santo Padre; visita ad un cattedrale durante la celebrazione liturgica della Sede di San Pietro o il giorno della dedica dell’arcibasilica di San Salvatore Laterano (recitando piamente in ogni caso un Credo ed un Pater).
o) Ricezione della, o assistenza pia alla, prima Santa Comunione.
p) Assistenza ad alcune predicazioni della sacre Missioni ed alla chiusura solenne.
q) Pia visita alla chiesa dove si tiene un sinodo diocesano (recitando piamente un Credo ed un Pater).
r) Visita a basilica minore o santuario (internazionale, nazionale o diocesano) una volta l’anno in un giorno scelto dal fedele (recitando piamente un Credo ed un Pater).
s) Assistenza ad un ufficio celebrato dal Visitatore il giorno della Visita pastorale.

Indulgenze parziali

a) Santa Eucarestia e contrizione
Visita al Santissimo, preghiera approvata davanti al Santissimo (come Tantum ergo), Comunione spirituale, ringraziamento dopo la santa Comunione; esame di coscienza (sopratutto per prepararsi alla Confessione), atto di contrizione secondo una formula legittima.

b) Preghiere
Recita del Rosario (a parte di 1a e 3b sopra), Magnificat, Angelus, Regina Caeli, Salve Regina, Sub tuum etc.; preghiera approvata all’Angelo custode, a san Giuseppe, ai santi Pietro e Paolo, al santo del giorno; preghiera mentale; recita pia del Credo o un atto di Fede, Speranza, o Carità secondo una formula approvata; recita di un piccolo ufficio approvato; preghiera approvata per il santo Padre, per il vescovo, o per i benefattori; preghiera approvata di supplica o di ringraziamento: all’inizio o alla fine del lavoro, del pasto, e della giornata; rinnovamento delle promesse battesimali; preghiere della Chiesa orientale.

c) Devozioni e atti pii
Segno di croce devoto, uso devoto di un oggetto pio benedetto (cfr. 2j sopra) da un sacerdote o diacono; lettura o ascolto della sacra Scrittura per meno di una mezz’ora; pia invocazione durante il compimento dei doveri o nell’avversità; atto di misericordia; atto di astinenza, testimonianza di Fede.

d) Visite ed impegni
Ritiro/riflessione mensile, assistenza alla predicazione della Parola di Dio; visita ad una chiesa o ad un oratorio durante le solennità in onore di un nuovo santo o beato; preghiera approvata per l’unità dei cristiani; partecipazione ad una novena o alle litanie approvate; visita ad un cimitero pregando per i defunti; la recita del Requiem Aeternum, delle lodi o del vespro dell’ufficio dei defunti; visita pia alle catacombe.

Consigli generali

a) alzandosi la mattina conviene fare l’intenzione di guadagnare tutte le indulgenze possibili durante la giornata;

b) a coloro che si confessano almeno ogni due settimane, ed ogni giorno comunicano e recitano il santo Rosario in chiesa (o adorano il Santissimo per almeno una mezz’ora), viene consigliato di aggiungere un Pater ed un’Ave per il santo Padre, per poter guadagnare ogni giorno l’indulgenza plenaria.

Deo Gratias!

La Resurrezione

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+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Quando le pie donne erano giunte al sepolcro, il sole era già alzato, il sole che alla morte del suo Creatore fu oscurato, ma che adesso alla Sua Resurrezione, si era alzato in perfetta armonia col suo Creatore: poiché allo stesso tempo del sole creato si alza il Sole Increato, il Sole di Giustizia, lo Splendore e la Gloria del Padre, la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo.

E siccome tra le tenebre della notte e la luce del giorno il sole non era ancora visibile, ma nelle parole di san Girolamo “irradiava inanzi a se una rosea aurora”, così Nostro Signore Gesù Cristo non era ancora visibile, ma rivelava solo gradualmente la Sua resurrezione: il Suo più grande miracolo, il fondamento della nostra fede, il fondamento anche di tutta la nostra speranza nella futura gloria.

Questo miracolo si manifesta per primo nella pietra rimossa dal monumento, e poi nell’annuncio dell’angelo. Ma già l’apparenza dell’angelo anticipa il suo annuncio, in quanto (continuando il commentario patristico) lo splendore celeste della sua veste bianca proclama la gioia e la gloria pasquali – la gioia che il nemico è sconfitto, il Regno guadagnato, e che il Re della Pace che era cercato, ora è trovato e non si perderà mai più; mentre la sua giovinezza è segno del corpo risorto, ed il sepolcro vuoto segno della nostra futura resurrezione.

“Non abbiate paura” dice l’angelo, “Voi cercate Gesù Nazareno crocifisso: Egli è risuscitato”. Le pie donne non devono avere paura di vedere questo Suo compagno di Paradiso: piuttosto i figli di questo mondo devono intimorire alla rivelazione di misteri così sublimi. Ora il nome “Gesù Nazareno” è quello che stava sopra il Salvatore sulla croce, e l’angelo Lo chiama anche “il Crocifisso” – ma dopo la Resurrezione la croce non è più immagine di morte e di disgrazia bensì simbolo della vita e della gloria eterne.

“Ma andate” continua l’angelo, “dite a Suoi discepoli ed a Pietro: Egli vi procederà in Galilea…” San Pietro, che abbiamo ultimamente visto piangere la sua caduta, deve farsi coraggio tramite questo annuncio, ed assicurarsi che il Signore lo ami nonostante i suoi peccati.

Sì, carissimi fedeli, anche per noi è passata la notte del peccato, la notte quando abbiamo lasciato la compagnia del Signore per rinnegarLo e per tradirLo con i nostri peccati – “ed era notte” scrisse l’evangelista: questa notte è passata, perchè anche per noi il Signore è morto, ed anche per noi risorto dalla morte; e nel sacramento della Confessione ci perdona tutti i nostri peccati. Il giorno nasce ed Egli risorge nella gloria radiante della Sua Santità per non morire mai più: nostra luce, nostra vita, nostra gioia, e nostro unico premio in tutta l’eternità. Amen.

Il merito

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il merito è uno dei tre valori che possiede ogni atto buono libero e compiuto nello stato di Grazia per un fine sovrannaturale. Il merito aumenta la Grazia in noi ed il diritto alla gloria celeste; il valore sodisfattorio cancella la colpa del peccato e ne annulla la pena dovuta; il valore impetratorio invece costituisce una domanda di nuove grazie, essendo ogni buon atto simile ad una preghiera a Dio per i propri bisogni o per quelli dei nostri cari.

Più da vicino, il merito è un diritto ad una ricompensa per un’opera compiuta solo su questa terra, perchè, essendo libero, non può comprendere la nostra operazione in Paradiso o la nostra sofferenza in Purgatorio, dove non abbiamo più la scelta tra l’ amare Dio o meno. La ricompensa è celeste ed eterna, come conviene all’Agente principale dell’opera Che è Dio, ed alla deiformità della nostra vita e collaborazione con Lui. Il grado del merito viene determinato dagli elementi seguenti:
1) la santità del soggetto;
2) l’intenzione
3) il fervore con cui agisce; e
3) il tipo di opera che compie.

1. La Santità del soggetto

Il grado di santità del soggetto corrisponde al grado di unione a Nostro Signore Gesù Cristo. Piu vicini siamo alla fonte di Grazia, il Capo del Corpo Mistico, più pienamente ci elargirà la Sua Grazia, e più pienamente opererà in noi. Qua si verifica la parola di San Paolo (Gal 2.20): ‘Io vivo, non più io, ma vive in me Cristo’. In conclusione possiamo dire: Più valore ha la persona, più valore l’opera.

2. L’Intenzione

L’intenzione è la qualità principale dei nostri atti, anche se il valore morale dipende anche dal tipo di atto che si compie. Così per esempio un aborto deliberato compiuto per una buona intenzione non può mai essere un atto buono. Dato, però, che il tipo di atto non sia oggettivamente sbagliato, l’intenzione è ‘l’occhio’ che illumina l’atto e lo dirige al debito fine; è l’anima che lo ispira e che lo dà valore al cospetto di Dio. ‘Si oculus tuus erit simplex, totum corpus lucidum erit’.

Questa intenzione può essere o attuale o virtuale, (cioè esplicito o implicito), e San Tommaso ritiene che un qualsiasi atto lecito compiuto nello stato di Grazia sia un atto di Carità, almeno virtuale, e dunque anche meritorio. Ogni atto buono infatti si riconduce ad una virtù, ed ogni virtù converge alla Carità, essendo essa la regina che comanda a tutte le virtù. Così anche mangiare per rifarsi le forze è meritorio. Ma è pur vero che se vogliamo che i nostri atti divengano meritori quanto più possibile, occorre un’ intenzione attuale: più pura l’intenzione, più grande sarà il merito. Se mangiare per rifarsi le forze è già meritorio, sarà chiaramente più meritorio mangiare per rifarsi la forze per meglio lavorare per Dio e per le anime.

Essendo la Carità la regina delle virtù ne segue anche che l’intenzione attuale più perfetta è quella della Carità: più perfetta della speranza ed il timore; più perfetta di ogni altra intenzione.

L’intenzione attuale bisogna rinnovare spesso, perchè, essendo la volontà e la memoria dell’uomo deboli e volubili, possiamo divertire l’intenzione anche durante lo stesso atto, e ciò che abbiamo cominciato per amore di Dio, viene contaminato o deviato dalla diritta via dall’egoismo, dalla curiosità, o dalla sensualità (per evocare la triplice concupiscenza). Come spiega il padre Tanquerey: ‘Quando una nave salpando da Genova fa rotta per New York, non basta dirigere la prora una volta per sempre verso questa città, ma poichè la marea, i venti, e le correnti tendono a farla deviare, bisogna continuamente ricondurla, per mezzo del timone, verso la meta. Così è della nostra volontà: non basta ordinarla una volta, e neppure ogni giorno, a Dio’.

Facciamo notare che per aumentare i meriti è possibile aggiungere intenzioni alle nostre azioni oltre alla Carità, come quella di docilità verso superiori, espiazione per peccati passati, riconoscenza a Dio – ma non è prudente farlo a costo di perdere la pace dell’ anima. Padre Tanquerey suggerisce che è meglio ‘abbracciare quelle che spontaneamente ci si presentano e subordinarle alla Divina Carità.’

3. Il Fervore

Il fervore o l’intensità con cui si opera è un altro fattore che aumenta il merito di un nostro atto. Ovviamente si può operare con poco sforzo, con negligenza, oppure con slancio e persino con tutta l’anima. Senza dubbio un’anima fervorosa può guadagnare ogni giorno una quantità grande di meriti e divenire in poco tempo molto perfetto. ‘Perfezionatosi in breve, compì una lunga carriere – consummatus in brevi, explevit tempora multa (Sap 4.13).

4. L’Atto

Il tipo di atto è rilevante al merito che si guadagnerà. Abbiamo già visto che un atto di Carità sarà più meritorio di atti di altre virtù. Chiaramente anche la grandezza e la durata dell’atto influirà sul merito. Una grande donazione avrà più merito di una piccola (della stessa persona); soffrire per una giornata avrà più merito che non per un’ora.

Il merito si aumenterà anche dalla difficoltà dell’atto: in quanto richiederà maggior amor di Dio o sforzo più energico e sostenuto. Così resistere ad una tentazione violenta è più meritorio che non resistere ad una leggera; praticare la dolcezza per un collerico sarà più meritorio che non per un timido.

*

Per santificare noi stessi bisogna dunque prima santificare le nostre azioni. I meriti ce li guadagniamo sempre quando siamo nello stato di Grazia, ma ce ne possiamo guadagnare molti di più, se agiamo con un’intenzione attuale e ripetuta, con fervore e generosità, con perseveranza ed energia: se in fine con ogni nostra azione ci impegniamo ad amare Dio o il prossimo in Dio con tutta l’anima. Così sfruttiamo degli atti più comuni della vita per ottenere grandi cose. Non erano d’altronde gli atti del Nostro Divin Redentore e quelli della Sua Santissima Madre a Nazareth anche loro solo atti ‘comuni’?

‘Dal primo svegliarsi del mattino fino al risposo della sera’,
scrive Padre Tanquerey, ‘centinaia sono gli atti meritori che un’anima raccolta e generosa può compire; perchè non solo ogni azione, ma, quando si prolunga, ogni sforzo per farla meglio, per esempio, per cacciar le distrazioni nella preghiera, per applicare la mente al lavoro, per schivare una parola poco caritatevole, per rendere al prossimo il minimo servizio; ogni parola ispirata dalla Carità; ogni buon pensiero da cui si trae profitto; in una parola, tutti i movimenti interni dell’anima liberamente diretti verso Dio sono altrettanti atti meritori che fanno crescere Dio e la Grazia nell’anima nostra… non c’è mezzo più efficace, più pratico, più facile a tutti per santificarsi… per elevare in breve tempo un’anima al più alto grado di santità.’

Il mezzo pratico di convertire a questo modo tutti i nostri atti in meriti è di:
1) raccoglierci un momento prima di operare;
2) rinunziare ad ogni intenzione naturale e cattiva;
3) unirci a Nostro Signore, nostro Modello e Mediatore;
4) offrire l’azione a Dio per mezzo di Lui.

La difficoltà della vita spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La vita umana è una lotta. Noi, deboli e miseri, siamo mandati via su una strada stretta e pericolosa attraverso un terreno pieno di nemici, coll’avvertimento: ‘Siate perfetti!’ Bisogna esserlo pure, perchè il nostro compito è niente meno che di raggiungere il Paradiso: idealmente senza passare neanche per il Purgatorio.

Il primo nemico di noi siamo noi stessi, cioè la natura umana caduta: la Carne: la triplice concupiscenza: la concupiscenza degli occhi che cerca immoderatamente di possedere oggetti ed informazioni, ossia con avarizia o con curiosità; la concupiscenza della carne (nel senso stretto) che cerca di soddisfare immoderatamente i sensi, le emozioni, l’immaginazione, e la fantasia; la concupiscenza della propria eccellenza, cioè ‘la superbia della vita’ (o semplicemente la superbia), che cerca di adorare e glorificare se stessi al luogo di Dio.

La triplice concupiscenza viene assecondata dalle altre facoltà dell’anima, ferite anche loro dal Peccato Originale: l’intelletto che fa fatica a mantenersi nella contemplazione del Vero oggettivo: nella contemplazione di Dio e delle cose di Dio – ma cade spesso nell’errore e nelle cose di questo mondo; e la volontà, riluttante a sottomettersi all’ordine del Bene oggettivo: ai precetti di Dio e quelli della santa Madre Chiesa.

Il secondo nemico dell’uomo è il Mondo, che è niente altro che il luogo di fioritura della natura caduta e manifestazione esterna del disordine perverso interno, di cui i figli, vivendo sfrenatamente la triplice concupiscenza, seducono l’individuo a partecipare alla vita loro, o lo terrorizzano se rifiuta. Il terzo nemico è il demonio stesso, creatore e maestro della natura caduta, e principe del Mondo.

Inoltre al male morale verso il quale l’uomo è violentamente spinto sia da dentro che da fuori, viene in aggiunta il male fisico e psicologico, conseguenze ulteriori del Peccato Originale. Una madre si rallegra alla nascita del figlio, ma, come fa notare Lucrezio, il bambino nasce piangendo: la vita come lo illustra il Re Salomone nel libro Ecclesiastico, si caratteriza infatti di sofferenza e di morte, d’incostanza, delusioni, ingiurie, fallimenti, umiliazioni, perdite di ogni tipo, contro tutto del quale bisogna coraggiosamente far fronte, superando ciò che possiamo superare ed accettando il resto. Tutto passa, tutto perisce quaggiù: solo Dio rimane, solo Dio è, assieme alla Sua Parola Eterna.

Solo alzando la mente ed il cuore verso di Lui, quindi, e verso la Sua Santissima Madre possiamo ottenere la stabilità e la pace. L’intelletto e la volontà, malgrado il loro indebolimento, mantengono comunque un orientamento verso Dio: come il Vero Assoluto e il Bene Infinito: Che ci fornisce delle regole per attraversare il terreno ostile di questa vita e la forza per lottare contro il male.

La lotta alla quale si riduce tutta la lotta quaggiù è quella interna, perchè il Mondo ed il demonio non fanno altro che stuzzicare e sollecitare le tendenze peccaminose e le concupiscenze che già si trovano dentro l’uomo. La lotta è dunque quella tra le facoltà inferiori e superiori dell’anima: tra la Carne e lo Spirito, tra l’uomo vecchio, soggetto al Peccato Originale, e l’uomo nuovo dotato dalla Grazia.

Ma l’uomo nuovo che possiede la buona volontà sicuramente vincerà: perchè non sopporterà a nessun costo di perdere Dio dalla propria anima: il suo Bene supremo, il Bene supremo in assoluto; e Dio lo assisterà nella lotta: Qui docet manus meas ad proelium: anzi lotterà in lui e gli presterà una collaborazione a questa lotta assieme ad una copia di meriti che gli dà diritto ad un premio e ad una gloria sempiterni.

Dio e lui sono infatti strettamente uniti: ‘Voi in Me ed Io in voi’ (Gv 14.20), ‘Rimanete in Me ed Io in voi’ (Gv 15.4): l’uomo nuovo vivendo in Cristo in quanto membro del Suo Corpo Mistico; e Cristo vivendo in lui per la Grazia, col Suo amore, con le Sue virtù, coi Suoi doni, con le Sue grazie, le Sue dolci comunicazioni e comunione per assisterlo nel viaggio verso l’Eternità.

Dall’uomo vecchio non ci possiamo mai completamete liberare; lo possiamo solo indebolire ed incatenare, fortificandoci contro i suoi assalti brutali con le virtù, i sacramenti, e la preghiera. Da principio la lotta sarà violenta; dopo, più calma, mentre progrediamo lentamente ad uno stato paragonabile all’Integrità Originale prima della Caduta, quando le facoltà inferiori dell’anima erano ancor sotto il controllo completo della ragione, e l’intelletto e la volontà fissi in Dio.

Così goderemo di una pace maggiore, presagio della vittoria definitiva. ‘Ormai non sento in me nè grandi gioie nè grandi afflizioni’ scrive santa Teresa d’Avila (Vita 40. 22), ‘Se alle volte ne provo qualcuna, passa… presto… Anche se volessi rallegrarmi di quel contento o rattristarmi di quella pena, mi sarebbe impossibile… Il Signore ormai si è degnato di svegliarmi a quella vita in cui non si provano tutti quei sentimenti che prima erano in me così vivi, appunto perchè non ero nè mortificata, nè morta alle cose del mondo, e non vuole più che io ricada nella mia passata cecità.

Quando infine avrò combattuto la buona battaglia, terminato la corsa, conservato la Fede (2 Tim 4.7-8), vedrò Colui per Cui ho combattuto, Che ha combattuto con me ed in me, Che m’ha portato Lui Stesso al termine della corsa, Che m’ha conservato la fede: e Lui mi incoronerà della ‘corona della giustizia’ e mi darà il premio che sarà Lui Stesso, alla gloria del Suo Santissimo Nome. Amen.

La vita spirituale e Cristo

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Qual’è il rapporto tra la vita spirituale e Nostro Signore Gesù Cristo?

1) Cristo è il Capo del Corpo Mistico che è la Chiesa; noi ne siamo le membra, e dunque viviamo la vita spirituale in Lui;

2) Cristo ci ha redenti tramite la Morte in croce, e perciò ha meritato per noi la vita spirituale e tutto ciò che comporta;

3) Cristo ci ha mostrato con le Sue dottrine e col Suo esempio come vivere, e perciò è anche Insegnante e Modello di questa vita.

In sintesi Nostro Signore è al contempo principio vitale e meritorio, come anche Insegnante e Modello, della vita spirituale. Per quello abbiamo il diritto ed il privilegio del tutto gratuito di chiamare la vita spirituale ‘la Vita Cristiana’.

1. Cristo, principio vitale

Ego sum vitis, vos palmites, dice il Signore (Gv 15.5): Io sono la vite, e voi i tralci. Questa parola significa che noi facciamo parte di Lui; che la nostra vita fa parte della Sua vita; e che riceviamo la nostra vita da Lui come i tralci della vite ricevono la propria vita dal ceppo a cui sono uniti.

Ma Cristo non è solo la fonte della nostra vita spirituale, bensì anche il Capo. Ciò significa che Lui ha la preminenza su di noi; che ci dirige e muove; e che Lui ci anima e vivifica con i Suoi doni, con le Sue virtù e grazie. ‘Abbiamo visto la Sua gloria’ (Gv 1.14 e 16) … ‘come l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità… Dalla Sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia’. Il Concilio di Trento aggiunge (S.6 c.8): ‘Cristo Gesù come capo verso le membra… fa scorrere la virtù sui battezzati in modo costante’.

Ora, in virtù dell’unione intima a Nostro Signore della quale godiamo come membra del Suo Corpo Mistrico, possiamo non solo vivere, ma anche meritare, in Lui e con Lui. Questo è vero delle nostre sofferenze: ‘Se partecipiamo ai Suoi patimenti ‘ dice san Paolo (Rom 8.17), ‘sarà per partecipare alla Sua gloria’. Ma sono meritorie non solo le nostre sofferenze, bensì anche tutti i nostri atti cristiani compiuti nello stato di Grazia, e meglio sono compiuti, più sono meritori.

2. Cristo, principio meritorio

‘A causa della tanto grande carità con cui ci amò’, (dichiara lo stesso Concilio, S. 6.7) ‘la Sua Santissima Passione sul legno della croce ci meritò la giustificazione e sodisfece per noi.’ La Sua Morte ci ha donato infatti la stessa vita spirituale, di cui non avremmo potuto godere altrimenti; ci ha elargito i sacramenti, in primo luogo il battesimo che ci toglie il Peccato Originale ed è la porta a tutti gli altri, e poi la Confessione e la santa Messa dove ci comunica sempre più grazie. A parte queste grazie ci saranno innumerevoli altre con cui ci elargisce per progredire nella santità. Nelle parole di san Paolo: Dio ci benedisse in Cristo con ogni sorta di benedizione spirituale (Ef 1.3) Benedixit nos in omni benedictione spirituali in caelestibus in Christo Jesu‘ – ‘grazie di conversione’ commenta padre Tanquerey, ‘ grazie di perseveranza, grazie per resistere alle tentazioni, grazie per trarre profitto dalla tribolazione, grazie di consolazione, grazie di rinnovamento spirituale, grazie di nuova conversione, grazie di perseveranza finale’. Tutto Egli ci meritò, e ci assicura inoltre che tutto ciò che chiederemo al Padre in Suo Nome, vale a dire appoggiandoci sui Suoi meriti, ci sarà concesso.’

3. Cristo, Insegnante e Modello della Vita spirituale

Nel Discorso della montagna, nelle parobole, in tutte le Sue sante istruzioni, il Signore inculcava costantamente un corpo di dottrine così comprensivo e perfetto, che, chiarificato ed approfondito dalla Chiesa e dai suoi Dottori attraverso i secoli, ha bastato per santificare una quantità innumerevole di fedeli.

Quanto all’esempio che ci ha lasciato della propria vita, sant Agostino fa osservare che coloro che gli uomini avevano sotto gli occhi erano troppo imperfetti da servire da modelli, mentre Dio, Che è la Santità stessa, a loro sembrava troppo distante. E allora l’Eterno Figlio di Dio si fa uomo e ci mostra coi Suoi esempi come si può perfezionarsi su questa terra.’Ecco il mio Figlio, nel quale Mi sono compiaciuto’, dice Dio Padre al Battesimo ed anche alla Trasfigurazione. Ci invita con questa frase di imitare Suo Figlio, per divenire anche noi l’oggetto della Sue Divine compiacenze. ‘Impara da Me, che sono mite ed umile di cuore’ dice il Signore (Mt 11.21). ‘Vi ho dato l’esempio perchè come ho fatto io, facciate anche voi’ (Gv 13.15). Cos’è, infine, la vita spirituale (nel senso morale) se non l’imitazione di Cristo?

Imitando le virtù e le azioni del Nostro Divin Modello, progrediamo nella vita spirtuale, dunque, ma anche meramente meditandole. Meditando la Sua umiltà, purezza, mortificazione e tutte le altra Sue virtù siamo eccitati ad imitarle non solo per la forza persuasiva della Sua Persona, ma anche per l’efficacia delle grazie che ci meritò praticandole. Lo stesso vale per gli avvenimenti della Sua vita Divina terrestre. Meditando l’Incarnazione impariamo a rinunziare a noi stessi ed unirci alla Divina Volontà; meditando sulla crocifissione impariamo a crocifiggere la carne e le sue concupiscenze; meditando sulla Morte impariamo a morire al peccato.

*

In sintesi, noi viviamo in Lui come membra del Suo Corpo Mistico; Lui vive in noi per la Grazia; ci ha dato tutti i mezzi necessari per imitarLo, anzi per trasformarci in Lui, cosi che possiamo dire con san Paolo: Vivo non più io, ma vive in me Cristo (Gal 2.20); e dire con le parole del Canone Romano: per Lui, con Lui, e in Lui rendiamo ogni onore e gloria a Dio Padre onnipotente, nell’unità della Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen:  Per Ipsum, et cum Ipso et in Ipso est Tibi, Deo Patri Omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria, per omnia saecula saeculorum. Amen.

La grandezza della vita spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Guarda davanti a questo liceo agli allievi che stanno qua oziosi. Ascolta i loro discorsi inutili, volgari ed osceni, le loro risate. Guarda negli occhi quando tacciono, e dimmi cosa vedi là: non è il vuoto, la desolazione, la morte? Guarda invece quest’altro in disparte che non partecipa alle loro conversazioni. Guardane la modestia e mitezza. Negli occhi non c’è una luce? Nel sorriso non c’è la bontà e la pace? – come se conoscesse, possedesse, anzi, come se già vedesse qualcosa o qualcuno più grande di tutto ciò che trascorre davanti, di tutto ciò che c’è in questo mondo finito e passeggero?

L’anima nello stato di Grazia che crede in Dio Santisima Trinità, che ama Lui con la Divina Carità ed il suo prossimo in Lui, brilla di una meravigliosa bellezza che presta poi alla persona intiera. I Padri lo paragono a cera molle nella quale è impressa il sigillo della Divina Somiglianza, o (secondo san Basilio) a quei corpi trasparenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono come penetrati, e acquistano e diffondono tutto intorno a loro un incomparabile fulgore. Così l’anima in istato di Grazia, simile ad un globo di cristallo, illuminato dal sole, riceve la Luce Divina, risplende di vivo fulgore, e lo trasmette intorno a sè. Similmente l’immagine che abbiamo già visto del ferro immerso nell’ardente braciere, esprime non solo il modo in cui Dio si unisce all’anima e le presta la propria somiglianza, ma anche la profonda penetrazione di Dio nel più intimo dell’anima, lo splendore, l’ardore, e la pieghevolezza dell’anima alle Divine ispirazioni.

La Grazia è per essenza assolutamente sovrannaturale ed eleva la natura e l’operazione dell’uomo ad un livello a cui non ha nessun diritto, ne facoltà di raggiungere. Quale creatura infatti potrebbe mai pretendere il diritto di divenire figlio adottivo, amico, e tempio di Dio; di conoscere, amare, e possedere Lui nella Sua più intima natura e poi di vederLo faccia a faccia per tutta l’eternità? Scoprire lo Stesso Dio Trinitario nell’anima non è altro che scoprire il tesoro nascosto nel campo. Non è questo possesso il maggior bene di cui possiamo godere quaggiù, per il quale dovremmo essere pronti a sacrificare tutto ciò che abbiamo?

Mai rischiamo di perdere Dio dalla nostra anima tramite il peccato mortale: di perdere l’immagine del Suo sigillo sull’anima, di perdere la luce del Suo sole, il calore del Suo amore; di scambiarli con il vuoto, la desolazione, e la morte. Anzi, non rischiamo pure di offuscare o diminuirli neanche con il peccato veniale o con qualsiasi imperfezione. Santa Teresa d’Avila vedeva in una visione il Signore nell’anima come in uno specchio, e capiva come il peccato oscura quello specchio; in un’altra visione vedeva Lui come ‘un splendidissimo diamante, molto più grande dell’Universo’ e disse ‘Tutto ciò che noi facciamo si riflette in questo diamante, perchè racchiude in sè ogni cosa… mi è di afflizione profonda il pensiero che in quella purissima chiarezza si riflettevono cose tanto abbominevoli come sono i miei peccati’.

Con quale premura bisogna dunque coltivare la Vita Divina in noi: per rendere ogni giorno l’immagine Divina nell’anima più rassomigliante al suo Divin Esemplare; per far splendere la Sua Luce più chiaramente in noi; per farci penetrare più intimamente e profondamente dal fuoco divorante dell Divinità; per farci infine più degni di vivere la vita in Lui: la Verità, la Bontà e la Bellezza Diamantine, Infinite, ed Eterne.

Fare questa opera di perfezionamento e di santificazione su di noi stessi è già nel nostro interesse spirituale, in quanto la nostra eterna Beatitudine corrisponderà ai meriti che avremmo guadagnati così. Ma più di quello dobbiamo a Dio tutti gli sforzi che possiamo fare per tre altri motivi: per giustizia, per divenire templi degni per contenere lo Spirito Santo: ‘Alla Vostra Casa conviene la santità per la lunghezza dei giorni – Domum tuam decet sanctitudo in longitudine dierum‘ (sal.92); per riconoscenza alla Sua infinita generosità verso di noi – essendo il modo migliore per mostrare la gratitudine verso un benefattore l’utilizzare un beneficio per il fine per cui ci è stato concesso. Ma ancor più di quello il nostro motivo deve essere l’amore: perchè ci ha creati e redenti, perchè è morto per noi, e Si è dato a noi sacramentalmente nella santa Eucarestia, e spiritualmente con la Grazia, in modo del tutto gratuito, in anticipo della Sua unione definitiva a noi in Cielo. Amen.

La natura della vita spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

(sintesi del trattamento di Padre Adolfo Tanquerey, nel Compendio di teologia ascetica e mistica)

‘Se uno Mi ama, osserverà la Mia parola, e il Padre Mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui’ (Gv. 14.23). Queste parole esprimono l’abitazione della Santissima Trinità nell’anima del giusto – ciò che avviene quando una persona è nello stato di Grazia.

Dio è già presente nell’anima in modo naturale, dove Egli è Creatore e Sovrano Padrone, e noi siamo i Suoi servi, la Sua proprietà; ma con la Grazia dei sacramenti, soprattutto del battesimo e della penitenza, Egli entra nell’anima in modo sovrannaturale, per stabilire una relazione diretta tra l’anima e Se Stesso come è nella Sua intima natura: come la Santissima Trinità.

Cos’è la Grazia? La Grazia è una qualità dell’anima che la rende partecipe della vita stessa di Dio, come un pezzo di ferro, tenuto dentro le fiamme, assume il calore ed il colore del fuoco. L’anima, anzi la persona umana intiera, diviene in seguito partecipe della vita divina, o ‘consorte della natura divina’ secondo l’espressione di san Pietro. In quanto tale non d i v i e n e Dio o uguale a Dio, ma solo simile a Lui: ‘deiforme’.

La Grazia rende Dio presente all’anima nella Sua essenza, in modo vero e reale, tale di essere posseduto, visto, ed amato direttamente dall’anima. Si tratta dunque dell’unione dell’anima a Dio nel possesso, nella visione, e nell’amore per Lui, che è in sostanza dello stesso genere dell’unione che avviene in Cielo: l’unione della Visione Beatifica. La prima unione è dello stesso genere del secondo, dunque, ed è anche orientata a trasformarsi in essa nel corso del tempo.

Dentro l’anima Dio è presente, ossia è presente con tutte le operazioni delle Tre Persone Divine: Il Padre genera il Figlio; il Padre ed il Figlio si amano a vicenda infinitamente; da questo amore procede lo Spirito Santo, vincolo reciproco dei Due, ma distinto da loro.

La Santissima Trinità è presente in noi non solo nella Sua essenza, però, ma anche moralmente: per assisterci come Padre, Figlio, e Spirito Santo nel nostro cammino verso il Cielo.

Egli è il nostro Padre e noi siamo i Suoi figli adottivi: adottivi non nel senso legale ed artificioso, però, ma in senso reale. ‘Ha dato potere di divenire figli di Dio’ (Gv 1.12); ‘… per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente’ (1Gv 3.1). ‘Abbiamo infatti ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo ‘Abba Padre’… e se siamo figli, siamo anche eredi. Eredi di Dio, coeredi di Cristo’ (Rom 8.15-7). Nel Discorso della montagna (Mt 5-7) Nostro Signore Gesù Cristo descrive il rapporto paterno come quello di un padre che conosce perfettamente il suo figlio, ascolta le sue preghiere fatte in segreto, conosce i suoi bisogni, e prende cura di lui. In un altro luogo ( Gv 3.16) esprime l’amore del Padre in termini del sacrificio che fece del proprio Figlio.

Dio ci aiuta non solo da Padre, ma anche da Figlio, e più precisamente da Amico. Questa amicizia si caratterizza di una certa uguaglianza (anche se ovviamente non è piena) e di un’intimità e famigliarità per mezzo di dolci comunicazioni e comunione.

Le dolci comunicazioni vengono espresse nella parola del Signore: ‘Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi’ (Gv 15.15). Non solo ai Suoi discepoli ha fatto conoscere ciò, però, ma anche a noi tramite il Suo insegnamento durante la vita terrena e tramite la Santa Chiesa; nonché tramite tutte le ispirazioni interne al nostro spirito, quando per mezzo del Suo Spirito suggerisce a noi ‘tutto ciò che avrà detto a voi’ (Gv 14. 26).

La dolce comunione, invece, viene espressa della parola: ‘Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la Mia voce e Mi apre la porta, Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con Me’ (Apc 3. 20). Tommaso à Kempis parla similmente di:’ Frequenti visitazioni coll’uomo interiore, dolce parlare, grata consolazione, molta pace, una famigliarità assai meravigliosa’ (Im II 1.1). Non è questa la nostra parte d’altronde nella pratica della presenza di Dio?

Dio è presente a noi anche nella Persona dello Spirito Santo, in quanto Santificatore. Egli ci forma per divenire un tempio degno per contenere Lui assieme a tutta la Santissima Trinità, guidandoci nel cammino della perfezione tutto il lungo della nostra vita. Ci elargisce ed aumenta le virtù teologali della Fede, Speranza, e Carità; le virtù cardinali infuse della Prudenza, Giustizia, Fortezza, e Temperanza; i sette Doni, come quello del Consiglio che perfeziona la Prudenza affinché possiamo giudicare ciò che bisogna fare, e la Forza per operare e patire lietamente e intrepidamente grandi cose, superando tutti gli ostacoli, e perseverando sino alla fine. Ci manda grazie attuali ad ogni momento della vita. Così potremo dire coll’Apostolo (Fil 1.6): ‘Colui che ha iniziato in voi questa opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Gesù Cristo’.

È pur vero che in un certo qual modo Dio tratta i Suoi figli, anche i peccatori, anche i non credenti, sempre come Padre, Figlio, e Spirito Santo, o, più precisamente, si può sempre attribuire alle diverse Persone della Santissima Trinità le varie relazioni di Dio con gli uomini: in quanto provvede per i loro bisogni, ascolta le loro preghiere, bussa all porta dei loro cuori, e li assiste con grazie attuali; ma per coloro che non sono nello stato di Grazia mancheranno l’intimità e la dolce comunione: non si siederà per cenare con loro; e mancheranno pure le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo.

Infine, la vita spirituale è questa: Contenere la Santissima Trinità nell’anima tramite la Grazia; vivere nella presenza del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo: essere l’oggetto dell’amore premuroso del Padre, l’oggetto famigliare ed intimo del Figlio, l’oggetto del potere santificatore dello Spirito Santo, Spirito dell’amore reciproco del Padre e del Figlio. Contenere dentro dell’anima, ed essere in rapporto diretto ed intimo con, queste Tre Persone, i Tre Ospiti invisibili dell’anima: Che sono presenti per collaborare con noi e per aiutarci a raggiungere il Cielo: Quando la Grazia si trasformerà nella Gloria, e la conoscenza velata si trasformerà nella Visione beatifica: la Visione degli stessi dolci ospiti dell’anima come sono in Se Stessi nella loro Gloria infinita, alla nostra eterna Beatitudine. Amen.

Paradiso

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+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Il Paradiso è il luogo della felicità eterna: quella felicità descritta dai Santi Padri della Chiesa come una esenzione da ogni male e il godere di ogni bene.

La esenzione di ogni male è descritta nell’Apocalisse nei termini seguenti: ‘Non avranno più fame, ne avranno più sete, ne li colpirà il sole, né arsura di sorta; e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate…’ Il godere di ogni bene invece viene descritto da San Paolo: ‘quelle cose che occhio non vide ne orecchio udì, ne mai entrarono nel cuore dell’uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano’.

1. La Visione di Dio

Anche se non possiamo descrivere la qualità di questa felicità o beatitudine, possiamo almeno dire in cosa consiste, e questo è il possesso di Dio: perché come Dio è la somma di ogni perfezione, ne segue che il possesso di Dio colma completamente ogni desiderio che possiamo avere per tutto ciò che è Vero e Bene, e per ciò costituisce la perfetta felicità.

Questo possesso di Dio è descritto anche in termini della conoscenza, o visione, di Dio. Nostro Signore Gesù Cristo + il cui Nome sia sempre adorato, dice: ‘Questa è la vita eterna, che conoscano Te l’unico vero Dio e Colui che hai mandato, Gesù Cristo’; e San Giovanni scrive: ‘Sappiamo che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è – sicuti est‘.

Il nome di questa visione è la Visione beatifica a cui San Paolo accenna quando scrive: ‘Ora vediamo come in uno specchio, ma allora vedremo a faccia a faccia…’ Il motivo per cui bisogna essere simili a Dio per poter vederLo, è che per vedere o comprendere una cosa, bisogna assomigliarsi in qualche modo a questa cosa. Per vedere il Divino occorre dunque, in qualche modo, essere divini o partecipare in modo adeguato nella Divinità di Dio. Questo avviene tramite l’infusione nell’anima di ciò che si chiama Lumen Gloriae, la luce della gloria: in questa luce vedremo Dio che è la Luce – in lumine tuo videbimus lumen.

2. La Pace

Dottori eminenti della Chiesa hanno insegnato che tre doni seguono il possesso dell’infinita felicità e questi sono la gloria, l’onore, e la pace. Parlando della pace, Sant’Agostino ne distingue tre specie: pace in noi, pace tra di noi, e pace con Dio. Questa pace è riempita di gioia, amore, e lode, di cui la gioia più grande sarà cantare le Misericordie di Dio per tutta l’eternità: un inno alla gloria della grazia di Cristo mediante il Sangue di cui siamo stati liberati. In breve, come continua il Santo alla conclusione della sua opera, la Città di Dio: Là taceremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco cosa sarà alla fine senza fine, perché cos’è il nostro fine se non da raggiungere quel regno che non ha fine?

Il Cielo sarà il luogo, infine, dove, nelle parole dello stesso santo, sarà compiuto il precetto di Dio: ‘Fate silenzio e sappiate che Io sono Dio’ (Salmo 45,11). ‘Questo sarà davvero il più grande dei sabati, un sabato che non conosce tramonto. Noi stessi diverremmo questo settimo giorno, restaurati da Lui e perfezionati dalla Sua più grande grazia; staremmo nel Suo riposo per l’eternità; vedremo che Lui è Dio e saremmo riempiti di Lui, quando Lui sarà tutto in tutti: ossia la soddisfazione di tutti i nostri desideri’.

*

La meditazione sulla morte, sul Giudizio e sull’Inferno ci può motivare alla conversione per paura; quella sul Paradiso ci può motivare per amore: Siamo creati per uno scopo ed uno scopo solo: per amare Dio il Bene Infinito, per godere della felicità e della pace eterna in Lui. Se falliamo in questo, avremo fallito in tutto. Serviamoci dunque di questa breve vita per raggiungere questo scopo: per l’intercessione della Beatissima ed Immacolata Madre di Dio alla Gloria dell’Altissimo. Amen.

Paradiso

 SECONDO LE IMMAGINI DELLA SACRA SCRITTURA

Fra Angelico

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Per aiutarci a comprendere cos’è il Paradiso, mediteremo su tre immagini che si trovano nell’Apocalisse (21, 2-3): ‘Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal Cielo da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ‘Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini…’

a) Il Tabernacolo

Nell’Antico Testamento troviamo varie immagini del Paradiso che esprimono raccoglimento, accoglienza, sicurezza, e vicinanza a Dio, come quelle della casa o della tenda (tabernaculum). Guardiamo la seconda immagine. Nel Salmo leggiamo: Abiterò nella Vostra tenda per sempre: inhabitabo in tabernaculo tuo in saecula. Abitare nella tenda significa evidentemente abitare in un rapporto stretto con quello che già abita nella tenda, e trovare presso di lui protezione dal caldo: cioè da tutte le sofferenze di questa vita.

La tenda è immagine adatta per il Paradiso in questo modo, ma anche in quanto nell’Antico Testamento si chiamava ‘Tenda’ il ‘Santo dei santi’, il luogo dove si trovava l’Arca dell’alleanza e gli altri oggetti più sacri del popolo d’Israele (cfr. Eb 9. 3-4). Dopo la fondazione della Chiesa, invece, questa parola assume un senso ulteriore, ovviamente, che è quello del tabernacolo dentro la chiesa: il posto che contiene il ‘Santo dei santi’ per eccellenza: la vera dimora del Signore sulla terra. La frase: inhabitabo in tabernaculo tuo in saecula diviene quindi espressione di una vicinanza particolarmente stretta ed intima a Dio Stesso.

Ma la parola tabernaculum acquista un senso ancor più profondo nell’ Epistola di san Paolo agli Ebrei (9.11-12), dove l’Apostolo parla di ‘un tabernacolo nuovo, non fabbricato dalle mani degli uomini’, cioè la Sacratissima Umanità di Nostro Signore Gesù Cristo. ‘Abitare nel tabernacolo’ significa allora infine vivere eternamente nel Signore Stesso.

*

Per capire meglio la portata delle due altre immagini del paradiso, cioè quelle della Sposa e della Città santa, bisogna tenere in mente qualche dottrina cattolica sul Cielo e sulla Chiesa. Il Cielo, o piuttosto Gli abitanti del Cielo, sono gli angeli ed i beati; insieme costituiscono la Chiesa Trionfante. La Chiesa, invece, è allo stesso tempo la Sposa Immacolata di Cristo, ed il Suo Corpo Mistico.

b) La Sposa

L’amore sponsale, o matrimoniale, è immagine del Paradiso, in primo luogo, in quanto rappresenta l’amore tra Dio e l’anima. Lo rappresenta, essendo l’amore matrimoniale il tipo di amore umano il più stretto, più forte, più immenso, e più duraturo in assoluto. Nell’Antico Testamento l’amore di Dio per l’anima viene rappresentato in questi termini nel Cantico dei cantici. Se l’amore matrimoniale appare nel primo libro della Bibbia con l’unione di Adamo ed Eva, appare nell’ultimo libro nel contesto dell’amore di Dio per l’uomo: ‘Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita. Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». E San Giovanni aggiunge alla fine: Amen. Vieni, Signore Gesù’ (Apc 22. 17 e 20).

La sposa in questi esempi rappresenta, dunque principalmente, l’anima individuale amata da Dio, ma in altri brani rappresenta una comunità di persone: il Popolo di Israele nell’Antico Testamento e la Chiesa nel Nuovo. In questi casi si manifestano tutti e due aspetti della Chiesa che abbiamo menzionati sopra: l’aspetto di Sposa e l’aspetto di Corpo Mistico.

Nell’Antico Testamento dice il Signore al Suo popolo (Ger 13.3): ‘Ti ho amato con un amore eterno’; ed è a causa di questo amore sponsale per Israele, che Egli descrive la loro apostasia come ‘adulterio’. Similmente la sposa nella Cantico dei cantici si intende non solo come l’anima individuale (e sopratutto quella della persona più amata di Dio, cioè la Madonna) ma anche come la stessa Chiesa. Nel Nuovo Testamento, nella citazione dal libro dell’Apocalisse all’inizio di questo articolo, la Sposa e la Città santa vengono identificate.

Il concetto dell’amore sponsale tra Dio ed una comunità si manifesta anche nell’ immagine delle nozze, che può essere vista come uno sviluppo ed un completamento dell’idea dell’amore tra Dio ed una sposa individuale. ‘Il Regno dei cieli è come le nozze…’ dice il Signore. L’immagine delle nozze aggiunge esplicitamente alla semplice immagine della sposa l’aspetto comunitario del Paradiso, dunque, dove tutti si radunano insieme per festeggiare con gioia l’amore tra lo Sposo e la Sposa. O, più precisamente, ogni persona presente si rallegrerà all’amore tra Sposo e Sposa, ed allo stesso tempo sarà essa stessa la Sua Sposa.

c) La Città Nuova

Guardiamo adesso brevemente l’immagine della città nuova, o la Nuova Gerusalemme, coll’aiuto dei Padri della Chiesa.

Il fatto che il Cielo è visto come una città, mostra che è una comunità, anzi la comunità delle membra del Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa. Il fatto che è visto come una città, la città di Gerusalemme, esprime la sua santità e pace, essendo Gerusalemme la Città Santa, e il nome “Gerusalemme” significando visione di pace. E’ la nuova Gerusalemme in contrasto al vecchio che ha ucciso i suoi profeti e crocifisso il suo Salvatore.

I cittadini di questa Città celeste sono nutriti dall’albero di vita, godono del fiume d’acqua viva che scorre dal suo centro, e sono illuminati dal Signore Dio. L’albero di vita rappresenta la sacratissima umanità di Cristo, di Cui la morte sul legno della Croce fu la fonte della nostra vita; il fiume d’acqua viva che scorre dal Trono di Dio e dall’Agnello è lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio; è limpida come cristallo perché presta ai cuori e ai corpi degli eletti una purezza accecante che riflette i fuochi del Sole di giustizia, che è Cristo; la Luce della Città è Dio stesso, Che illumina le menti dei suoi cittadini, con le forme più alte della conoscenza.

Tramite queste ed altre immagini, l’Apocalisse, che significa ‘Rivelazione’, ci mostra che in Cielo Dio è tutto in tutti: Dio colma tutti i nostri desideri, diviene il nostro cibo, la nostra bevanda, la luce mediante la quale vediamo e noi saremo trasformati, corpo ed anima, per poter accoglierLo in noi in tutti questi modi.

*

Le immagini che fornisce la sacra Scrittura esprimono il Paradiso dunque come l’unione amorevole a Dio, intima e raccolta; un’unione alla Santissima Trinita’, a Nostro Signore Gesu’ Cristo, lo Sposo Divino; un’unione che avviene nel contesto dell’unione amorevole a tutto il Suo Corpo mistico: a tutta la Chiesa Trionfante. Questo amore reciproco tra ogni persona e Dio e l’amore di ogni persona per tutti gli altri membri della Chiesa, la riempirà di gioia: gioia in Dio, gioia in ogni altro, gioia all’amore di ogni altro per Dio.

Queste poche immagini ci danno una intuizione in ciò che è possedere,  conoscere, e vedere Dio: come una sposa e come una comunità la ragione d’esistenza intera di cui consiste in Dio e nell’amarLo e lodarLo.

*

Che queste considerazioni, carissimi fedeli, accendano i nostri cuori a cercare quella felicità, in confronto con cui la felicità di questo mondo è come un niente; perché essa è l’unico motivo per cui siamo stati creati, e solo essa può colmare i desideri più profondi e più intimi del cuore umano.

Cerchiamola dunque, con una vita buona e santa, con la Carità verso Dio e verso il prossimo, la Preghiera, ed i Sacramenti, a gloria di Dio Onnipotente.

+ In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.

La Natività

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La Beata Vergine, nell’episodio della Natività, “meditava tutte queste cose nel suo cuore”. La parola latina “conferens” suggerisce di fare dei paragoni, tra l’umano e il Divino: l’umano nella nascita di un bambino umano da una madre umana, nelle più povere e meschine condizioni; il Divino nella nascita di un Dio annunziata da un Arcangelo, predetta dalla concezione e dall’esultanza in grembo di San Giovanni Battista, dalle profezie di S. Elisabetta e S. Zaccaria, dalla moltitudine degli angeli e dalla stella.

E tra i segni dell’azione divina possiamo includere anche il carattere del parto in se stesso, e la presenza di angeli ministri.

Il parto non violò l’integrità verginale della Madre, così come non lo fece la Concezione, in quanto la Madre di Dio è perpetuamente Vergine: prima, dopo, e durante il parto; né il parto fu in modo veruno doloroso, perocchè i dolori delle nostre doglie non furono ereditati dalla Nostra Madre Santissima, in quanto ella era immune da ogni macchia del Peccato Originale. Perché laddove Eva, la madre di morte, partorì nel dolore come pena per il Peccato, la Beata Vergine, la Madre della Vita, partorì nella gioia, esente da ogni peccato.

La Madonna rivelò a Santa Brigida: “Egli uscì dal mio chiuso grembo verginale con indicibile gioia ed esultanza… io lo partorii… inginocchiata da sola in preghiera nella stalla. Perché con tale esaltazione e letizia dell’anima io l’ho partorito, ché non ebbi alcun travaglio né provai dolore veruno, ma subito Lo avvolsi nelle vesti pulite che io avevo già da lungi preparate”. Nel Discorso Angelico leggiamo: “Inoltre, quando il Figlio di Dio fu concepito, Egli entrò nell’intero corpo della Vergine con la Sua Divinità, cosicché, quando nacque con la Sua umanità e la Sua Divinità, Egli uscì versato attraverso il suo corpo, siccome tutta la dolcezza esce interamente dal seno della rosa, rimanendo la gloria della verginità nella Madre Sua”.

Dove si fermò Nostro Signore al momento della Sua nascita? Barradio asserisce ch’Ei s’adagiò sul terreno a cagione della Sua Divina umiltà, mentre, secondo una tradizione riportata dal Ribadaneira, la Beata Vergine non appena vide Cristo, fu colta da gran meraviglia per il Dio fatto uomo, e si prosternò a terra davanti a Lui, e con la più profonda riverenza e gioia del cuore Lo salutò con queste parole: “Tu sei venuto da me, che tanto Ti ho desiderato, o mio Dio! Mio Signore! Mio Figliuolo!”, non dubitando affatto di esser stata compresa da Lui, pur Bambino quale Egli è, e che ella dunque Lo adorò, baciandogli i piedi in quanto Egli era il suo Dio, le mani in quanto Egli era il suo Signore, il Suo volto in quanto Egli era il suo Figliuolo. Altri sono invece dell’opinione che Egli fu posto dagli angeli nelle braccia della Sua Beatissima Madre; altri ancora, tra cui S. Brigida e il padre Cornelio a Lapide, affermano che il Divino Bambino si alzò con la Sua stessa forza e si mise tra le braccia della Sua dolcissima Vergine Madre.

Per quanto riguarda la presenza di angeli ministri, padre Cornelio a Lapide commenta giustamente: “Se le stelle del mattino lodavano Iddio e tutti i Suoi Figli (ovverosia gli Angeli) si rallegravano della creazione del mondo, come dice Giobbe (38,7), quanto più devono aver gioito al momento dell’Incarnazione e della Natività del Verbo? Infatti, S. Paolo afferma (Eb 1,6): Quanto il Padre fece nascere il Suo primogenito nel mondo, Egli ordinò che tutti i Suoi Angeli Lo adorassero”. E possiamo facilmente immaginare che non solo nel cielo sopra i pastori, circondato da una nuova e maestosa luce divina, ma certamente pure nella stalla di Betlemme le schiere degli Angeli lo adorassero.

E lo stesso padre Cornelio a Lapide commenta: “Tutti gli Angeli accompagnarono Cristo loro Dio e Signore sulla terra, al modo in cui tutte le corti reali accompagnano un Re quando si reca da qualche parte. Provavano meraviglia del Dio Incommensurabile, come se si trovassero ridotto a concepibili dimensioni in una luce immensa, e Lo veneravano e Lo adoravano… E così avvenne che questa stalla era come se fosse diventata l’alto cielo del Paradiso, piena di Angeli, di Cherubini e di Serafini, i quali, lasciando il Cielo, venivano in terra ad adorare il loro Dio fatto uomo. Siffatta era l’opera dell’Incarnazione e della Natività del Verbo, finora inconcepibile, così come era del tutto incredibile per gli Angeli, in quanto era l’opera suprema e conveniente della Divina Potenza, Saggezza, Giustizia e Clemenza, la quale supera ogni capacità di comprensione degli uomini e degli Angeli.

E così la Madonna, nel silenzio, nella sua verginale modestia, nella sua celeste prudenza, nella sue quanto mai salde Fede e Speranza, contemplava tutte queste cose, sia umane che Divine, paragonando i segni di profondissima umità che vedeva con quanto ella conosceva della Suprema Maestà di Dio: la stalla con il cielo; le fasce con l’abito meraviglioso di cui è rivestito Colui che è “coperto di luce come da una veste” (salmo 104); la culla con il trono dell’Altissimo; le bestie con i Serafini: vedendo in esse tutta una meravigliosa armonia, tale da confermare la sua Fede, che l’unico Figlio di Dio, Quello che da Lei nacque, il Quale avrebbe, nel corso del tempo, sviluppato e portato a compimento suddetti misteri nella Redenzione del mondo.

E proprio come la Rivelazione di Dio sotto le spoglie di un bimbo neonato suscita meraviglia negli Angeli per la sublime novità, così eleva il cuore dell’umanità, e soprattutto della Madonna, all’adorazione della Divinità, siccome canta la Chiesa nel Prefazio di Natale: “Poiché dal mistero del Verbo Incarnato, la nuova luce del Vostro splendore rifulgette agli occhi della nostra mente, sicché, mentre venivamo a conoscere Dio visibilmente, siamo rapiti dal desiderio per le cose invisibili”. E così la Beata Vergine, tutti gli Angeli e gli uomini gioiscono assieme, e così anche noi, cari fedeli, gioiamo insieme e ringraziamo Iddio per esser venuto sulla terra per amor nostro, sicché pure noi possiamo amarLo come un piccolo bambino, come il nostro Dio, il nostro Redentore, il nostro Bene Infinito.

(Traduzione a cura di Traditio Marciana)

Il Direttore Spirituale

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Guardiamo prima la necessità di un direttore (maestro spirituale/confessore regolare) rispetto ai pericoli della vita spirituale, e poi rispetto all’autorità della Chiesa; e dopo le qualità che convengono ad un tale.

1. La necessità di un direttore

i) nei pericoli della vita spirituale

Proveniamo da un bel regno, ed a quel bel regno dobbiamo tornare, ma tornare attraverso un paese selvaggio e pericoloso. Il terreno è ingannatore e pieno di pericoli; dapertutto ci sono nascosti nemici senza misericordia che ci vogliono uccidere ed impadronirsi delle nostre anime. Il Re che ci ha incaricati di tornare al Suo regno ci ha giustamente fatti accompagnare da un Suo servo che ci possa guidare attraverso il terreno e custodirci dai nemici feroci. Questo è l’Angelo Custode. Ma vuol farci accompagnare anche da un altro, non invisibile e puramente spirituale, bensì visibile ed al contempo spirituale e materiale, un nostro pari, ben versato nei pericoli del terreno e dei nemici che lo infestano, con cui ci possiamo intrattenere in ogni reciprocità, libertà, e franchezza; consigliare, ed obbedire prontamente per arrivare alla meta in sicurezza.

Scrive Padre Morando nella sua edizione delle Opere di santa Teresa d’Avila (Vita, volume iv): ‘Il confessore è padre, maestro, medico, giudice, e guida dell’anima che a lui si affida… Di esso si serve il Signore come di un secondo Angelo Custode per illuminarci, dirigerci, toglierci dai peccati, e dai vizi, riprenderci e guidarci sulla strada sicura della salute.

Bisogna fare dunque una buona scelta, perchè alle volte da questa dipende l’esito della confessione e il progresso spirituale. Scrive san Basilio: ‘Nella confessione dei peccati è da osservarsi la stessa regola che nello scoprire i mali del corpo: non si mostrano questi a uno qualsiasi, ma a coloro che sono esperti nel curarli.’

Senza un tale guida cosa diverremmo? diverremmo guide a noi stessi. Non è possibile che vediamo intieramente chiaro quando si tratta di noi stessi, dice san Francesco di Sales; non possiamo essere giudici imparziali in causa propria per una certa compiacenza ‘così segreta ed impercettibile che, se non si ha buona vista, non si può scoprire, e quelli stessi che ne son presi, non la concoscono se non la si fa loro vedere’.

Si manifesta la necessità di un direttore, infatti, in tutte e tre tappe della vita spirituale, che guarderemo adesso in dettaglio.

Per gli incipienti c’è bisogno all’inizio di un periodo lungo e laborioso di penitenza. I pericoli che questo periodo comporta sono:
i) la vana compiacenza nelle mortificazioni esterne, onde si guasta la salute, si cura con troppa indulgenza, e si cade poi nel rilassamento;
ii) la presunzione prematura di entrare in una tappa spirituale troppo alta, come quella dell’ amore, ciò che può condurre allo scoraggiamento, ed a nuove cadute;
iii) l’aridità spirituale onde le consolazioni sensibili iniziali spariscono, si abbandonano gli esercizi di pietà, e si cade nella tiepidezza. Il direttore ha il compito di ammonire ai figli spirituali che le consolazioni non dureranno per sempre; di assicurarli che l’aridità rassoda le virtù e purifica l’amore.

Per i progredienti, c’è bisogno di nuovo di luce per discernere le virtù da coltivare, per esaminare la coscienza, incoraggiamento per perseverare nel lungo e faticoso cammino verso la perfezione.

Per i perfetti, o piuttosto per coloro che si stanno avvicinando alla perfezione, un direttore è altrettanto indispensabile: per coltivare i doni dell Spirito Santo; per discernere le ispirazioni divine da quelle della natura o del demonio; per essere guidati nei tempi delle prove passive: dei profondi turbamenti, delle tentazioni, delle paure della divina giustizia; per essere discreti, umili, docili, e prudenti nei tempi di grazie contemplative: per conciliare la passività con l’attività.

ii) L’autorità della Chiesa

‘Dio, avendo costituita la Chiesa come società gerarchica’, (scrive Padre Tanquerey, su cui ci appoggiamo principalmente in questo articolo) ‘volle che le anime fossero santificate per mezzo della sottomissione al Papa e ai vescovi nel foro esterno e ai confessori nel foro interno’. Papa Leone XIII scrive: ‘Troviamo alle origini stesse della Chiesa una celebre manifestazione di questa legge: benchè Saulo, spirante minacce e carneficine, avesse inteso la voce di Cristo Stesso e gli avesse chiesto: ‘Signore, che volete ch’io faccia?’ pure fu inviato ad Anania in Damasco: ‘Entra in città e là ti sarà detto quel che devi fare’…’Cosi fu praticato nella Chiesa; questa è la dottrina unanimemente professata da tutti coloro che, nel corso dei secoli, rifulsero per scienza e santità.’

La necessità di un direttore spirituale per i monaci viene insegnata da san Giovanni Cassiano nell’occidente, e da san Giovanni Climaco nell’oriente. San Vincenzo Ferreri asserisce: ‘Chi ha un direttore al quale obbedisce senza riserva e in tutte le cose, arriverà molto più facilmente e più presto che non farebbe da solo, anche se fornito di vivissima intelligenza e di dotti libri in materia spirituale.’

Ciò che vale per i monaci vale anche per i laici. Sant’Alfonso insegna che uno dei doveri principali del confessore è quello di dirigere le anime. Le lettere di molti Padri della Chiesa, come San Girolamo e Sant’ Agostino testimoniano lo stesso bisogno da parte dei fedeli, come ci mostra d’altronde la natura stessa della vita spirituale, che tutti fedeli dovrebbero condurre in modo serio.

*

Dice il Padre Godinez: ‘Su mille persone che Dio chiama alla perfezione, dieci appena corrispondono, e su cento che Dio chiama alla contemplazione, novantanove mancano all’appello… Bisogna riconoscere che una della cause principali è la mancanza di maestri spirituali… Costoro sono, dopo la Grazia di Dio, i nocchieri che guidano le anime attraverso lo sconosciuto mare della vita spirituale. E se nessuna scienza, nessuna arte, per semplice che sia, può essere imparata senza un maestro che l’insegni, tanto meno si potrà imparare quell’alta sapienza della perfezione evangelica ove s’incontrano così profondi misteri… Stimo quindi cosa moralmente impossibile che, senza miracolo o senza masestro, un’anima possa per lunghi anni passare per ciò che vi è di più alto e di più arduo nella vita spirituale senza correr rischio di perdersi’.

2. Le qualità di un direttore

Santa Teresa insiste che un direttore sia dotto, prudente, e che abbia esperienza delle cose di Dio. Scrive: ‘… il demonio ci può tendere molti tranelli; perciò non vi sarà mai nulla di più sicuro che temere sempre più, procedere sempre con cautela, avere un maestro che sia dotto e non tacergli nulla: facendo così non potrà venire alcun danno’ (Vita 25); È molto importante… che il nostro maestro sia prudente, cioè di buon criterio, e abbia esperienza. Se oltre a ciò è anche dotto, è una grandissima fortuna’ (Vita 13).

Padre Morando aggiunge che il confessore deve essere anche uomo di Dio, discreto, paziente e zelante, non troppo severo, non troppo condiscendente. Per poter discernere il direttore adatto occorre una ricerca in buona fede e sincerità di cuore con preghiera fervorosa a Dio. Santa Teresa d’Avila cercava un confessore adatto per 18 anni. La Santa dice: ‘Se nonostante ogni sua ricerca, non lo può trovare, il Signore verrà certamente in suo aiuto, come ha sempre fatto con me, quantunque sia tanto miserabile’. Aggiunge che un direttore inadatto ‘invece di porgere rimedi alle anime, non fanno che inquietarle ed affligerle. Ma questa prova sarà tenuta da Dio in gran conto’ (Vita 40).

Una volta ‘trovato un buon confessore, il penitente non lo deve cambiare senza un giusto e grave motivo’, aggiunge il padre Morando. ‘Coll’essere stabile, conosce meglio lo stato ed i bisogni dell’anima; più fruttuosa e sicura riuscirà la direzione. Bisogna considerare il confessore come il rappresentante di Gesù Cristo, e quindi averne stima e rispetto, docilità e ubbidienza, tutto manifestargli e nulla nascondergli’.
Deo Gratias.

L’educazione

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+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La procreazione assieme all’ educazione dei figli è la prima finalità del matrimonio. I genitori hanno, dunque, un dovere grave di fornirli, o se stessi o tramite altri, una educazione sana.

Osserviamo però che la mentalità moderna, concretizzata nelle leggi contemporanee degli stati, nei programmi educativi delle scuole, e ormai largamente estesa tra il popolo, si oppone violentamente ai princìpi sani dell’educazione.

Procediamo esponendo prima lo stato attuale dell’educazione nelle scuole di oggi, e poi i princìpi cattolici che devono determinarla. La nostra breve esposizione ci mostrerà che gli unici modi di educare figli nell’Italia di oggi che sono compatibili sia con la Fede che con i doveri dei genitori, sono lo ‘Homeschooling’ e le scuole parentali.

I   L’educazione nelle scuole di oggi

Ora ci sono chiaramente due campi in cui opera l’educazione: il campo scolastico e quello morale, i quali sono divenuti tutti e due campi di battaglia invasi ormai dallo spirito del Mondo, anche nelle scuole che ancora si dicono cattoliche.

Quanto all’educazione scolastica, ci sono due materie che sono maggiormente bersagliate dallo spirito del Mondo: quella della filosofia, e quella della storia. Nella filosofia testimoniamo una tendenza verso l’ateismo, il relativismo, l’umanesimo, l’edonismo ed il comunismo, con l’esaltazione di figure come Charles Darwin, Emanuel Kant, David Hume, e Karl Marx. Nella storia, invece, si testimonia l’ostilità contro Dio, la Chiesa, e la Monarchia, con l’esaltazione di figure come Martin Lutero e di avvenimenti come la Rivoluzione francese.

Quanto all’educazione morale, si insegna nelle scuole di oggi un edonismo tanto superficiale quanto irrazionale. Tale edonismo si manifesta innanzitutto nell’educazione sessuale, introdotta sotto il titolo eufemistico di ‘Affettività e corpo’ o sotto il titolo pseudo-intellettuale del ‘Gender’ (cfr. il libretto ‘Educazione sessuale nelle scuole di oggi’ reperibile su questo sito); si manifesta altrettanto nell’accettazione ufficiale del libertinaggio da parte degli insegnanti, e nella pornografia seminata qua e là nella materia scolastica, ad esempio persino nei libri di grammatica latina.
II   I princìpi dell’educazione cattolica

Conviene ai genitori, ai giovani che riflettono di sposarsi, e più generalmente a tutti, inquanto membri di una società invasa dal male, di meditare seriamente sui princìpi dell’educazione cattolica. Questa sezione dell’articolo consisterà principalmente in una sintesi del sermone di Sant’Alfonso (per la domenica settima dopo Pentecoste) attorno alla parola del Signore: ‘Non può l’albero buono dare frutti cattivi, nè l’albero cattivo dar frutti buoni’ (Mt 7.18).

Scrive San Giovanni Crisostomo: ‘Abbiamo un grande deposito: i figli; conserviamolo con grande cura’, e fa notare che normalmente abbiamo maggiore cura degli asini e dei cavalli che non dei figli. Sant’Alfonso osserva: ‘I figli non sono un dono fatto ai genitori, sì che ne possano disporre come vogliono; ma un deposito, che se per loro negligenza si perde, essi dovranno darne conto a Dio’. Origene dice che di tutti i peccati dei figli, i padri ne hanno da render conto nel giorno del loro giudizio. San Paolo scrive persino che: ‘Se uno non pensa ai suoi, e specialmente a quelli di casa, ha rinnegata la fede ed è peggiore di un infedele’ (1 Tim 2.15).

Come elementi essenziali dell’educazione si possono enumerare:
1) la disciplina;
2) l’insegnamento della Fede, della preghiera, e di massime cristiane;
3) l’esempio.

1. La disciplina

‘Allevateli nella disciplina e negli ammonimenti del Signore’ scrive
San Paolo (Ef 6.4), e il Re Salomone ci insegna: ‘Chi risparmia la verga odia il suo figliolo’ (Prv 13.24). ‘Se ami quel figlio’, commenta Sant’Alfonso, ‘riprendilo e castigalo anche colla sferza, se bisogna, quando è già grandetto’. Ammonisce il padre di non batterlo quando sta in collera, perchè allora è facile eccedere, e il figlio penserà che la punizione non sia per emendarlo ma è solo effetto di ira. L’ideale è punirlo levandogli il mangiare, privandogli di una veste, chiudendolo in camera.

Il padre deve impedire ai figli le occasioni di peccare: indagando il portamento dei figli, informandosi dove va quando esce di casa; vietandogli di frequentare compagni cattivi; licenziando serve giovani di casa; proibendo giuochi pericolosi, letteratura cattiva ed oscena, immagini scandalose; proibendo che le figlie parlino da solo a solo con uomini.

Aggiunge santa Teresa d’Avila (Vita c.2): ‘… vorrei caldamente inculcare ai genitori, di fare molta attenzione alle persone che trattano con i loro figliuoli ancora in tenera età, perchè vi può essere gran pericolo, essendo la nostra natura più inclinata al male che al bene’.

Un gran male è l’indulgenza da parte dei genitori che, quando i figli si infangano in cattive amicizie, in risse e bagordi, invece di sgridarli e castigarli, dicono soltanto: ‘Che si ha da fare? Sono giovani, hanno da fare il corso loro.’ Un altro male è semplicemente tacere per non disgustare i figli. Ma di questi comportamenti sarà da rendere un conto rigoroso al giorno del Giudizio.

‘Procurate che sin da fanciulli facciano il buon abito…’ dice santo Alfonso, ‘perchè così poi facilmente le praticherano quando sono grandi.’ ‘Quanto è facile ai figli apprendere il bene quando sono piccoli, tanto poi è difficile’, aggiunge, ‘se hanno appreso il male, ad emendarsi quando sono grandi.’ ‘Il giovanetto, preso che abbia la sua strada, non se ne allontanerà neppure da vecchio’ (Prv 22.6).

2. L’insegnamento

Si legge nella Sacra Scrittura (Eccl 7.25): ‘Istruiscili e piegali alla sottomissione fin dall’infanzia.’ Il primo obbligo dei genitori è quello di istruire i figli nei rudimenti della Fede. Questi si trovano nel Simbolo apostolico: cioè l’esistenza di Dio, Creatore e Signore di tutte le cose; il mistero della Santissima Trinità; il mistero dell’Incarnazione del Verbo divino, Che è il Figlio di Dio ed allo stesso tempo vero Dio, fatto Uomo nel grembo della Madonna; Che patì e morì per la nostra salvezza; Che ci giudicherà e infine ci manderà per sempre o al Paradiso o all’Inferno. Con questo insegnamento i genitori inculcheranno ai figli non solo la Fede ma anche il timor di Dio che li tratterrà dal peccato: ‘Sin dall’infanzia insegnava il timor di Dio, e di asternersi da ogni peccato’ (Tob 1.10). Se i genitori non conoscono queste dottrine, devono mandare i loro figli al catechismo.

Inoltre devono istruirli come pregare il Credo, il Pater noster e l’Ave Maria, cose che ogni cristiano è tenuto a sapere sotto colpa grave; di recitare il Rosario; di fare la preghiera di mattina: ringraziando Dio di averli fatti alzare vivi, offrendoGli tutte le azioni buone della giornata e i patimenti che avranno da soffrire, pregando il Signore e la Madonna di custodirli da ogni peccato; di pregare la sera: esaminando la coscienza e facendo l’atto di pentimento; in più di visitare il Santissimo e fare atti di Fede, Speranza, e Carità. Alcuni padri di famiglia fanno fare ancora in casa ogni giorno la meditazione comune per mezz’ora, aggiunge sant’ Alfonso. I genitori sono tenuti altrettanto di farli confessarsi quando compiono 7 anni, comunicarsi quando ne compiono 10, e cresimarsi quando raggiungono l’uso della ragione.

Le buone massime sono anch’esse un grande aiuto per i figli. La regina Bianca, madre di san Luigi di Francia gli diceva: ‘Figlio, prima vorrei vederti morto fra le mia braccia, che stare in peccato’. Sant’Alfonso aggiunge le massime: ‘Ogni cosa finisce, l’eternità non finisce mai’; ‘Si perda tutto, e non si perda Dio’; e la parola del Vangelo: ‘A che serve avere tutto il mondo, e perdere l’anima?’ Commenta che una di queste massime che si imprime nella mente del figlio lo conserverà sempre in grazia di Dio.

3. L’esempio

‘Frequenta tu i Sacramenti’, ammonisce lo stesso santo, ‘senti le prediche che si fanno, di’ogni giorno il Rosario, non parlare immodesto, non mormorare, fuggi le risse, e vedrai che il tuo figlio si confesserà spesso, sentirà le prediche, reciterà il Rosario, parlerà modesto, non mormorerà, e non farà risse’.

Se i genitori non danno il buon esempio, invece, le loro parole di correzione avranno poco peso presso i figli: gli uomini credono più agli occhi che non alle orecchie. San Tommaso dice che padri che danno un cattivo esempio ai loro figli li obbligano in un certo modo a fare cattiva vita, e san Bernardo li descrive non come padri, bensì come uccisori dei figli. Infatti figli non nascono cattivi ma lo divengono tramite il cattivo esempio dei genitori.

Scrive santa Teresa d’Avila (Vita c. 2): ‘Spesso considero quale grave mancanza commettano quei genitori i quali non procurano in tutti i modi che i loro figli abbiano sempre innanzi agli occhi esempi di virtù. Infatti, sebbene, come dissi, mia madre fosse così virtuosa, giunta che fui all’uso della ragione, poco o nulla di buono appresi da essa; molto male invece imparai da una sua imperfezione’.

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Come abbiamo fatto notare sopra, la prima finalità del matrimonio è la procreazione e l’educazione dei figli. Essendo il fine ultimo dell’uomo di raggiungere il Paradiso, possiamo dedurre che lo scopo ulteriore dell’ educazione è proprio questo: di formare i figli per il Paradiso: un dovere da parte dei genitori altrettanto pesante che nobile.

Come si possono, dunque, giustificare i genitori a far educare la loro prole in una visione contorta della realtà, ed in una visione pervertita della morale? Quale scuola in Italia rimane ormai a cui si può più affidare? Quale altra scelta responsabile rimane per i genitori che non di educare i loro figli a casa, o nell’ambito delle scuole parentali? Bisogna scegliere sub specie Aeternitatis: si tratta infatti della vita eterna dei figli e pure dei genitori. Quanto ai genitori concludiamo con le parole di sant’Alfonso: ‘… nell’altra vita avrà un grande castigo chi ha educati male i figli, ed avrà un grande premio chi li ha educati bene’.

+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

La Redenzione

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+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Se un padre dà al suo figlio un dono preziosissimo, e il figlio consapevolmente e deliberatamente lo distrugge, è obbligato il padre (dopo averlo punito) a dargli un altro dono? No, il padre è giustificato piuttosto di non dargli più niente. Ma cosa ha fatto Dio? Quando l’uomo (nella persona di Adamo e di Eva) aveva distrutto lo stato della natura elevata, cioè lo stato di vita di Grazia, di vita che non conosce ne sofferenza nè morte, dove l’intelligenza e la volontà sono chiare e forti, e dove le emozioni sono completamente sottomesse alla ragione: quando Adamo ed Eva avevano distrutto questi doni del Paradiso terrestre per se stessi e pure per tutto il genere umano in cui nome anche hanno agito, Dio gli ha dato un dono incomparabilmente più grande per redimerli: quello del Proprio Figlio.

Vediamo che la Redenzione è un dono gratuito di Dio: un atto di pura misericordia. Ma non solo la Redenzione stessa, ma anche il suo mezzo ed il suo modo sono atti di pura misericordia. Dio infatti avrebbe potuto redimere il mondo con qualsiasi mezzo o modo, ad esempio tramite un semplice atto di perdono; invece ha voluto redimerlo tramite l’Incarnazione e la Morte del Suo Divino e Benamato Figlio, Nostro Signore Gesù Cristo.

Perchè Dio ha voluto redimere l’uomo precisamente tramite l’Incarnazione? Nel suo trattato Cur Deus Homo? (Perchè Dio Uomo) spiega Sant’Anselmo che l’Incarnazione era necessaria se Dio voleva un’espiazione perfetta del peccato. Il peccato, essendo infatti un’offesa contro Iddio Infinito, costituisce un’offesa infinita a Lui, e dunque esige una riparazione infinita che solo Iddio può dare. Allo stesso tempo la riparazione per un peccato commesso da un uomo dev’essere compiuto da qualcuno che agisce nelle veci dell’uomo, in maniera vicaria: cioè da un uomo. Ma proprio questo è avvenuto nell’ Incarnazione, dove Dio ha compiuto la riparazione del peccato come uomo: ossia come Iddio – Uomo, Gesù Cristo.

Se il mezzo della Redenzione fu un atto di misericordia, lo era pure il suo modo. Poichè il Signore, come insegna la Bolla Unigenitus Dei Filius (1343), avrebbe potuto redimere il genere umano con solo ‘una goccia di sangue’, mentre ha versato il Suo Sangue ‘riccamente, per così dire, in ruscelli’ – come San Paolo dice nella sua Epistola ai romani: ‘Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia’.

Ma perchè Dio non era contento di versare una goccia di sangue per redimerci, ma voleva versarlo in ruscelli? San Giovanni Crisostomo risponde: ‘Ciò che bastava per la redenzione, non bastava per l’amore’; e San Tommaso d’Aquino aggiunge: ‘Cristo ha offerto a Dio più di ciò che l’espiazione dell’offesa del genere umano ha esigito, in quanto ha sofferto per amore.’

Fu dunque l’amore di Dio che L’ha spinto a soffrire così profondamente per noi; ma non solo il Suo amore: anche il suo desiderio di manifestarci il Suo amore. San Bernardo scrive: ‘Nella vergogna della Passione si manifesta la massima e l’incomparabile Carità’, e San Gregorio Nazianzeno scrive: ‘In nessun altro modo poteva essere dichiarato l’amore di Dio verso di noi’: in una parola, Dio ha manifestato il Suo amore inesprimibilmente grande verso di noi per farci amarLo.

Sant’Alfonso paragona l’uomo ingrato con un criminale in prigione, condannato al supplizio ed alla morte, per cui un amico caro e santo si offre per subire tutta la punizione da lui meritata: per liberarlo dalla prigione e per dargli una vita felice. Cosa farà questo criminale quando è liberato? Penserà spesso al suo amico a cui deve tutto, ci penserà con profondo affetto e gratitudine, le lagrime negli occhi? O invece quando un altro menziona questo atto straordinario della Carità del suo salvatore, risponderà: ‘Amico mio, senta! Parliamo d’altro! Cambiamo tema!’ come se il tema non lo riguardasse, come se questo suo salvatore che gli aveva dato tutto, non fosse mai esistito?’

E quale di queste due persone siamo noi? Pensiamo noi spesso alle indicibili sofferenze di nostro Signore per noi, ci pensiamo con gratitudine, con emozione ed amore? Oppure non ci tocca per nulla, e viviamo come ci sentiamo, provando forse di evitare i peccati più gravi, o forse anche no; seguendo i nostri istinti ed emozioni, cercando i nostri interessi in tutto; mai pregando, o mai seriamente; mai pensando a questo amore, di cui non c’è un più grande amore, questo amore che si è manifestato in una sofferenza che durò una vita intiera dal momento del concepimento di Nostro Amatissimo Signore Gesù Cristo nel Seno Immacolato di Sua Madre verginale, fino al momento del Suo ultimo respiro sul duro legno della Croce quando pronunziò l’ultima parola Consummatum est; una sofferenza che comprende in sé, fino al più alto grado, tutte le sofferenze e tutti gli oltraggi ai quali l’uomo si è mai stato soggetto; una sofferenza, infine, tramite cui ha amato non solo tutto il genere umano collettivamente, ma anche ogni membro di esso individualmente?

+ In Nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen